
Gli autori vivono nelle stanze dei manoscritti con valigie di testimonianze e questa non è una frase fatta. La pretesa della scrittura non è sempre l’arroccamento dato che la creazione artistica vive in stanze che possano allontanarci dall’atteggiamento furioso e patetico talvolta dell’esterno nonché di cattivo gusto.
In queste stanze dentro, ad esempio, la letteratura russa mi ha sempre dato un grande senso di pace e De Candia non si rifà solo ad autori russi come Majakovskij tra le sue passioni troviamo anche poeti polacchi come Milosz, Szymborska, Zagajeswki.
Quando ho conosciuto De Candia mi ha suggerito di leggere Zabolotskij e ascoltare Peter Hammill e Fabio Zuffanti. Ammetto che le amicizie poetiche poche volte sono realmente nutritive, vivificanti e attente ma De Candia continuava comunque a confermarmi le sue ispirazioni, il suo metodo per scrivere poesie, le sue letture che un po’ estrapolavo dal blog «Il calamaio elettrico».
È evidente che la sua poesia riesce a distinguersi nella letteratura circostante: lo studio della letteratura russa ha contribuito alla formazione di uno stile deciso e intuitivo, di una narrazione che non perde tensione anzi si confronta con la vita cittadina e la fantasia con un vento di innovazione, una risposta che urla e canta nel silenzio della devozione.
La risposta poetica di De Candia è un suono che tende il suo volto all’eternità: sconvolgente rispetto quella dei suoi contemporanei perché la sua voce si impone come potente, attenta, entusiasmante frutto di una maturata gestazione. De Candia nei versi sancisce le sue pretese poetiche e le sue piccole fiction quotidiane.
La sua poesia è capace di creare famiglia anche a distanza, di scegliere il profumo della forza e del vigore dello sguardo e non della testa bassa e dello schermo, nonché di un linguaggio fintamente integrato e anzi poco elaborato. La forza ci guarda e non ci delude, le bugie che raccontiamo sono tutti i nostri mondi, tutte le nostre scarpe, ogni nostra acutezza.
Le stanze di De Candia non sono solo quelle interne del sentimento e delle ore trascorse a leggere ma sopratutto quelle che formano i tableaux vivants a cui spesso mi riferisco. Mi immagino il poeta pensare ai suoi versi mentre si trova davanti a un crop circle sulla spiaggia, un campo di pietra, o quando incontra l’uomo wi-fi che avanza nello spazio-tempo “con in tasca la mela mozza di Cupertino”. De Candia si oppone al crepuscolarismo e alla nostalgia, si oppone alle certezze analitiche e anzi accetta il dubbio. Perché nelle stanze dentro non si trova rimedio a tutto anzi si riconosce che dalla caduta libera ci si può salvare: “contorno d’uomo/ che corri su una meridiana/ e attendi un coro bianco di luce/ che sbuffi via la gente della tana:/ ricomincialo tu il mondo,/ segugio di cenere,/ tra stanze fuori,/ e stanze dentro,/ tutto da capo”.
Si può accettare che nelle stanze della poesia c’è talvolta l’indignazione, c’è una risposta al desiderio più preciso nell’esplosione che risuona quasi come una parola d’ordine: “Bluette, affinché tu possa parlarmi tutta/ e non solo dalla bocca”. Perché De Candia sa che nelle stanze dentro è una donna ad accogliere il lui-poeta: “verrai a soffocarmi di sonno/ soffiandomi luce addosso,/ e poi spegnendomi addosso/ il mondo”.
Perché la libertà di interagire con la poesia nelle stanze dentro dove il lui-poeta entra è anche una libertà di fuggire dall’apocalisse dove permane l’elemento onirico e quello favoloso come nelle poesie “Cavalieri delle acque”, “le rosse”, “lo psichiatra degli angeli”, “le insonni tele di Jouy”, “ho inscatolato l’acqua del mare”, “un cielo d’amarena”.
Nelle stanze dentro si colgono allucinazioni ironiche, visioni immersive sul futuro. I versi di De candia sono sospetti, anomalie, tentativi continui di risveglio si vedano ad esempio i testi “sono un esperimento” dedicato al padre o “il tuo cuore è un filtro di tè” dove il tu respirato da Bluette viaggia forse in una delle preoccupazioni delle “rosse” (una è andata in sposa/ a un clown gobbuto,/ poi è rinata sirena/ e ultimamente -si dice- è a far la spesa/ al quartiere cinese”).
O forse il tu resta “se ti muovi tu, spargi colore” a scappare col poeta chissà dove, quando Bluette forse diventa “Signora Illustrissima/ dei canneti di cheratina,/ ti sei allora voltata/ a testa sollevata/ piccola squama/ galoppante caduta/ in una tazza d’acqua/ per scioglierti nel mondo/ e colorarlo di te./ Eri una venere/ nel Cha No Yu”.
Non si può che rispondere alle potenzialità delle integrazioni illuminate di De Candia con una grande risposta segno di una definizione della buona poesia occidentale, della capace ed edificante storia poetica occidentale perché fintanto che le visioni del mondo saranno così apparentemente semplici e spumeggianti si avrà sempre una opportunità diversa per selezionarsi la vita, per selezionarsi la felicità e venire a capo di quella felicità così tanto arricchita di storie dei moderni enigmi.
Sabatina Napolitano
Le stanze dentro
Nel letto notturno,
col risucchio siderurgico
che gorgoglia distorto
dalle spire del cortile condominiale
e una lucetta a risparmio energetico,
leggo di Alesi Eros
(che a Ciampino voleva darsi il tempo
di raddolcirsi la bocca amara).
E quando leggo un corpo,
una città,
un canto,
io lo sfilo via.
Lo sfilo dal vestito di cancro
che ha addosso,
dal nodo di catene grezze
che lo inchioda ai santuari terrestri,
e me lo porto in corpo,
scavandomi stanze dentro,
monolocali di carne
per ospitare chi non può più
scrivere di sé.
Rabdomante di liberazione
(«Tu che trovi rimedio a tutto»,
mi dicevano, che poi non è vero),
scruto un corpo,
una città,
un canto
che procedono uno alla volta
fondendosi le mani
in un’unica ombra-processione
e affondano come le ore
nella pelle che annega,
quando non c’è Luce.
Sono figure in corsa,
fiere come bombe lanciate addosso,
e per questo d’istinto si respingono,
d’istinto e con l’istinto.
E invece
un uomo,
un folle,
un rifugiato
si può liberare
con l’inversa pazienza del ragno
tagliando filo dopo filo,
fino a raccoglierlo e nutrirlo dentro di sé.
Come piramidi o montagne
conservano nel ventre uomini e animali,
ci basterà la piega di una palpebra
per farci dormitorio d’esseri
nudi, stanchi, poveri, oppressi,
distorti, riflessi,
vivi?
Catturati da astronavi esplose,
caduti da stelle incenerite
dritti nei palmi giunti delle mani?
Goccia d’acqua
in fuga da una crepa,
tu, stanotte,
scandisci in una coppa
l’orario metallico
di un pianeta diverso,
o forse solo un orario diverso,
mentre il risucchio si allontana
con voce d’Orco e passo da Gigante.
Contorno d’uomo
che corri su una meridiana
e attendi un coro bianco di luce
che sbuffi via la gente dalla tana:
ricomincialo tu il mondo,
segugio di cenere,
tra stanze fuori,
e stanze dentro,
tutto da capo.
Martin
Si esibiva
ritraendo la gente tra la gente,
eiaculato ogni mattino
dalla penna di un Lewis Carroll apocrifo.
Ma se il suo busto è qui con noi,
forse ha lasciato le gambe
nel libro che l’ha generato
e non procede,
radicato come un ulivo.
Striscia la falange più lunga sulla terra,
scuote le foglie
e ne fa un guitto che c’assomiglia.
Con le unghie dei piedi
dipinte di polvere e sporcizia
m’ha detto:
«Se son così è perché t’ho camminato dentro».
Ho provato a rispondergli
ma la voce cadeva a strapiombo
per terra
incapace di tuffarsi per bene,
sciogliendosi tra crepe di radici
prima di arrivare
alle orecchie-destinazione.
È un artigiano (così dice)
e vive immortalando
l’uomo di passaggio,
strappandogli uno strato di pelle
a ogni pennellata.
Bisogna attendere che piova,
affinché il colore del dipinto, disciolto,
torni alla terra,
mentre trabocca dal capo
e vola via
il cappello striminzito
dell’artista di strada ormai arricchito.
China Shop
Col non-sorriso di brocca sbreccata
e guance di gommapiuma,
giocherellava coi dorsi delle carte
come fossero schiene di gatto bidimensionali,
con la testa felina fuggita rotolando nel suo pelo
e il corpo inerte e appiattito.
Recepì la richiesta “Jiàng yóu”
con un’occhiata afona e nera e, lentamente,
si disgiunse dalla sedia
interrompendo quella specie di solitario.
Allora le teste di carta-gatto
ritornarono indietro
a reinnestarsi sulla schiena,
per la parentesi di sua assenza.
Ne accarezzai i miagolii con le ciglia
per quel frammento di non austerità, finché – muta – ritornò con la bottiglia,
a sottomettere i dorsi di carte,
riflessi e spalmati sulla vetrina
sotto l’insegna “China Shop”.
La dissonanza dei linguaggi
contorce le interpretazioni:
provo a smontare gli ideogrammi
in pezzi
e a rimontarli con gusto,
e immediatamente cambiano forma
anche le cose.
Così la mia bottiglia è esplosa,
la soia scorre sul pavimento.
Ho chiesto scusa,
ma chissà cosa ho detto.
