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Lanciavi corse chiare di puledro

svelte le ossa mordevano l’aria

sempre più in alto vicino al sole

tutto quel cielo sembrava una donna

ti sbriciolava il sonno

la sorpresa di un verso inaspettato

come un abbraccio

come un dolore.

A sei anni dall’uscita della raccolta “La pazienza dell’inverno” (puntoacapo, 2013) Alessandra Paganardi pubblica “La regola dell’orizzonte” (puntoacapo, 2019). Già finalista al premio Nabokov nel 2018 con la raccolta di saggi “Lo sguardo dello stupore: lettura di cinque poeti contemporanei” (Viennepierre, 2005) è finalista nel 2019 con questo libro di poesia efficace ed espressivo cui alcuni testi sono stati condivisi in siti come inlimine.it e atelierpoesia; in riviste come Gradiva, Il Segnale, Steve e in antologie come Europa in versi; Binari InVersi, Perturbamento. Mare apparente”, “Angeli guardiani”, “Il resto della vita”, “Monogramma”, “Il codice del vetro”, “Il peso del vento”, “A termine” sono le sette sezioni in cui è diviso il libro. Come suggerisce Giancarlo Pontiggia questa raccolta si pone come una prova “di resistenza e di passione contro ogni forma di conformismo”, ed è proprio così che leggerò questi testi cercando di non lasciarne delle attribuzioni improprie. Ciò che colpisce al termine della lettura del libro è l’evidente capacità dell’autrice di generare pensiero, di pungere con una potenza chiarificatrice delle immagini e delle forme che scoprono nell’immaginario poetico una identità nuova che vince il semplice istinto letterario o la vocazione ma ripensa alla poesia come atteggiamento del dubitare. Alessandra Paganardi ha una grande padronanza del verso e delle visioni che risultano per questo tanto definite e nette da rappresentare talvolta un metodo: l’autrice nel libro svolge come una indagine preziosa, capace a inserirsi in un processo di continuo cambio dei punti di vista. Ciò che il lettore si aspetta non è quindi un registro teatrale o scenografico bensì l’uso continuo di nuove metafore e nuovi soggetti (il più delle volte naturali o allegorici) che rendono la parola capace di percezioni interessantissime come sollievi e respiri che a volte si svolgono in contesti abitudinari e ordinari altre volte si illuminano di un vocabolario di riti, fatiche, e immagini corali che richiamano energie ed epiche della presenza.

 “Mare apparente” (11 poesie) si apre con una magnifica citazione di Celan, “Nella fonte dei tuoi occhi/ vivono le reti dei pescatori del mar matto./ Nella fonte dei tuoi occhi/ il mare mantiene la sua promessa”. Proprio da questa citazione prende spunto la domanda all’inizio del progetto di Paganardi ed è sull’orizzonte del mare che mantiene la sua promessa. Di quale orizzonte si tratta e di quale mare? Paganardi ha già la risposta: il mare è un mare apparente. Il proposito teorico e pratico della poesia e più in generale della conoscenza è sviluppare le strategie e usare gli strumenti utili all’obbiettivo per cui “bisognerà fare a meno/ di questo non inverno/ del sole strano che va per il mondo”. Ed è proprio per una forza simile e un tale senso di umanità che la poesia di Paganardi resta la possibilità di cristallizzare un movimento nell’immaginario proprio del poeta che gravida in “tutti i posti che sono ovunque”, in soluzioni metaforiche che riformulano l’io e la realtà “il ponte che consumava la spiaggia”, percorrendo “le prove generali per il niente”, dove la chiave per la gioia sembra appunto essere “la fedeltà all’istante” e il “sodalizio con il corpo”.

Certo in questo vivere che è identificarsi con la vita ed è servire si svolge la teoria di Paganardi secondo cui l’orizzonte dell’uomo è sì metafisico ma lo è a partire dagli atti semplici e puri che possiamo rendere nobili attraverso il pensiero poetico, secondo queste indicazioni quindi, non è interessante la psicoanalisi e non lo è tantomeno la pretesa di colpire un bersaglio di senso, anzi un aspetto estetico della poesia di Paganardi sta nel sapere transitare nella vita, nel lasciarsi essere poesia e nell’abbandonarsi volontaristicamente a un flusso sano e pieno della natura delle cose quando per natura delle cose si intende la logica che muove gli individui nelle relazioni: l’autenticità dell’esperienza letteraria. Solo tramite l’adesso e il corpo è possibile superare il limite della poesia, per una riflessione superiore che passa attraverso le capacità metacognitive e le apprensioni metafisiche.Scomporre perciò il processo di informazioni che l’io prende in prestito dagli stimoli esterni è forse possibile anche mediante una metafisica di figure operanti il giusto orientamento per l’anima che Paganardi teorizza con gli angeli guardiani ma che non investe il piano dell’umano né lo consola della sua condizione. In altri termini con “Angeli guardiani” (7 poesie) Paganardi sa che la lotta per la vita e per la salvezza ha tutta l’aria di essere vera, e la poesia come disciplina dell’immaginario non può dimenticare la sua capacità di intercettare sensibilità e possibilità di fruizione della conoscenza.

Paganardi anche riflettendo su verità di natura fantastica non abbandona la sua realizzazione convincente e rinforzata dalle immagini nuove, che qui compaiono come “la sindone di fango”, “la grande freccia/ scoccata dalla sirena viola”, in “tutto l’arcobaleno bevuto” perché l’immaginazione in poesia può proprio il tentativo di Paganardi che ha “aperto un varco senza congiuntivi”. “Il resto della vita” così come “Monogramma” sono sezioni numerate coi numeri romani. Quindi in queste meravigliose cornici troviamo figure come angeli guardiani che aiuterebbero gli uomini a salvarsi dal mare apparente e a benedirsi contro quello che al contrario altro non è che falso altruismo. Nonostante c’è un grado positivo di influenza reciproca tuttavia Paganardi preferisce concentrarsi sul dubbio: non esiste peraltro una origine decisiva della storia per cui l’uomo vive nel pensiero poetico e nel percorso poetico desiderando apparizioni piuttosto che fidandosi solo ed esclusivamente delle presenze umane, “non voglio come bussola una faccia”. L’uomo è nel suo conflitto di senso che investe una società che sembra ancora scontare, “sconteremo questo troppo giorno” perché nonostante ci siano gli angeli rimaniamo come ulteriormente soli nella lotta del giorno, quotidiana e necessaria. L’attitudine poetica di Paganardi non è quella di analizzare il mistero attraverso le interrogazioni poetiche ma è anzi una presa visione nuova, anche in questo caso leggiamo di testi raggruppati in sezioni come scatole cinesi.

Un ruolo particolarmente importante nella poesia di Paganardi è svolto dalle interconnessioni logiche che passano attraverso i testi e che individuano non eventi che riguardano le esperienze comuni (la famiglia, i gruppi informali) o i micromondi (l’io lirico, il paesaggio interiore, il disegno inconscio) o il macromondo (le ideologie, gli attaccamenti culturali, i contesti socio-politici o culturali). La poesia qui si pone come una continua e breve sollecitazione all’educazione del pensiero “al tocco della vita inevitabile/ questa bocca arresa alla tua/ l’eredità fatta dimora/ del primo autunno sontuoso” per compiere questa educazione Paganardi crea una struttura del tutto innovativa rispetto quella esistente nel panorama letterario contemporaneo. Quindi se l’onestà intellettuale come sottolinea Pontiggia è il terreno della poesia di Paganardi è vero anche che leggere le sue poesie è una esperienza che frattura il senso della memoria per criticarlo, e che rende invece affascinante e sconcertante il dovere del poeta di scontrarsi con le apparenze comuni. Come si può “essere poesia”? E quale è l’orizzonte della poesia in versi? Il linguaggio di Paganardi esprime brevità come una labirintica coscienza di visioni che in certi passi richiamano a immaginari di intimità elaborate e sublimate (“becco sbrecciato di cicogna scura”, “mangrovie impazzite”, “le tazze sbrecciate”, “fuochi taciturni in un gioco di stelle vagabonde”, “lento odore di sonno e parole”, etc).Se ad una prima lettura quella di Paganardi fatica a riconoscersi come una poesia amorosa, la silloge è articolata in modo che tutto il potere invisibile della conquista del lettore è celato nella riflessione: il risultato è che dopo aver letto senza fiato le poesie, rileggendole si può seguire la linea interiore che però è sempre scomposta, criticata mai dichiarata con ingenuità.

È così che il tu di Paganardi pare accettare consigli, direzioni, fedeltà. Se la passione quindi sembra offrire la mancanza, libera dalle maschere, dona dubbi e paradossi, resta l’unico percorso per raggiungere la “gioia” tanto evocata nei versi: “è una ferita la gioia”, “i polmoni gettano via il respiro/ sento gridare la gioia”, “contromano alla gioia sopportare l’assurdo che amo”, “con stupore d’amante che sorveglia/ la gioia di una donna”, “la gioia mi cammina sulle labbra/ lo guardo mentre dorme”, “sia cara al cielo questa nostra gioia”, “la chiave arrugginita di un sorriso/ e l’amerai come se fosse gioia”. La poesia resta l’unico strumento a riflettere pienamente sulle profondità autentiche delle nostre esistenze, riesce a partorire attraverso le immagini i sentimenti complessivi della storia che Paganardi dice così “l’odore dei suoi sogni/ riempie di terra i solchi fra le nuvole/ e le stagioni passano/ mentre il cielo s’inclina”. Se quindi il tentativo di decifrare la vita resta illusorio “essere poesia” potrebbe mascherare un atteggiamento prigioniero di una condizione ontologica e non la proprietà di uno strumento. Paganardi nella sezione “Il resto della vita” risponde citando Ingeborg Backmann, “E quando ebbi bevuto me stessa,/ mentre i terremoti/ cullavano la mia terra primigenia,/ il mio sguardo si ridestò”. Il tentativo coincide sempre nel sottolineare il livello intratestuale che la poesia riveste nelle scienze letterarie, l’essere poeta è un requisito del senso che rinforza le possibilità del vivere, tra queste possibilità non sono escluse le pratiche delle altre discipline come la scrittura e la critica. Deduciamo che il poeta non è solo uno che “scrive soltanto parole” ma che anzi riesce a svelare il “cibo insaziato dell’assente”, e riesce a ripensare alle esigenze individuali che rispetto al passato e alla collettività sono sempre come un “viaggio di nozze/ del mondo nuovo come il mondo antico”.

Quindi la poesia non è una prassi del mondo ma è un adattamento al mondo che così diventa il contesto di una identità e non l’identità. In tutto il libro si ha come la percezione che l’orizzonte sia già raggiunto, che abbandonando il proposito di una meta, ci si possa guardare attraverso, per cogliere l’esattezza del contorno. In altri termini qual è la condizione che più influisce sulla possibilità di conoscenza? È possibile trarsene fuori. Superando il mare apparente, superando la metafisica con le sue presenze e superando le identificazioni culturali, cosa resta per essere poesia? “Come il morso di un angelo/ spaventa la radice dei capelli”ancora Paganardi nella sezione “Monogramma” sembra suggerire che cogliersi anche col corpo può sciogliere gli interessi ossessivi e narrare quelli buoni, può neutralizzare le pretese confuse e separarsi dal senso comune per vivere in una scelta di distanza rispetto alla morte, rispetto al male di vivere, rispetto all’incapacità di rifare mondi. Le sezioni che seguono “Il codice del vetro” (10 poesie), “Il peso del vento” (7 poesie), “A termine” (4 poesie) raccontano di luoghi che tuttavia sembrano vivere sempre e solo come pensati nella poesia e nella sospensione: “la festa”, “la città”, “il parco”, “il giardino”, “le case”, “la scuola”: tutto sembra sfuggire. Malgrado il dolore, malgrado i grigi, e il vuoto, quindi, le incertezze trovano nell’imperfezione la più grande traccia di esistenza.  Così nel codice invisibile che mette in relazione l’io, l’uomo e l’universo la condizione possibile è l’imprevedibilità, quell’imprevedibilità che trova giustificazioni nel silenzio e nella pazienza morbida.

Allegoria dell’imprevedibilità e del dissolversi è il vento: se infatti il vetro è un materiale che permette di ripararci dall’ascolto delle cose dolorose, il vento è l’elemento naturale che dissolve, disarma, spacca. Quando si può quindi scegliere di fare entrare il vento nelle nostre vite, e quanto è implicito condividere col vento delle nostre scelte che senza giustificazioni e ragioni valide ci fa perdere ciò che non è più possibile aggiustare. La sezione “Il peso del vento” è introdotta da una citazione da Caproni significativa: “Il vento. È rimasto il vento./ un vento lasco, raso terra, e il foglio/ (quel foglio di giornale) che il vento/ muove su e giù sul grigio/ dell’asfalto. Il vento/ e nient’altro”. Il vento induce una fluttuazione quando parla di rovine che tuttavia è più giusto non ascoltare, perché se il vento induce un progresso, insieme alla notte trasforma anche il mare in cemento. Il risultato dell’azione del vento è che allegoricamente alleggerisce e scompare; il vento non lascia appartenenze o incubi, non fa che accadere l’emozione del riparo. Così è quindi il poeta e anche l’uomo che si sente disarmato a colloquio con la forza sconfinata nascosta in sé stesso, nel suo potenziale creativo e spirituale.

Sabatina Napolitano

(nella foto Alessandra Paganardi, fonte il suo canale fb).

News Reporter
Sabatina Napolitano è nata a La Maddalena (SS) il 14 maggio del 1989. Ha pubblicato otto libri di poesia. Suoi testi sono usciti su Nazione Indiana, La poesia e lo spirito, Neobar, Bibbia d’asfalto, Poesia del nostro tempo, Gradiva, etc. Alcuni racconti su Quaerere, l’Incendario, Sguardindiretti. Origami è il suo primo romanzo edito Campanotto, 2021. Recensisce, collabora e intervista autori di poesia, narrativa e saggistica ed è una studiosa dell’opera di Nabokov. Edita, corregge, insegna, intervista, recensisce, scrive.
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