Di chi bisognerà fidarsi se anche i giornalisti commentano retoriche avvalorandole per sensate invece si tratta solo ed esclusivamente di un cumulo di morbose retoriche senza stile? Fuori dall’harem delle letterature retoriche e intrise di trite morbosità per cui non leggerei nemmeno una pagina, c’è la competenza letteraria. Fuori dall’harem delle mode letterarie religiose del momento -dove evidentemente il pensiero selvaggio invece di insegnare la regola della professionalità ci lascia agli affari della confusione senza francesismi- esiste il caffè amaro della critica. In una teoria dei diritti civili dovrebbe essere proprio del pensiero degli adulti costruire una storia che non si condanna alla retorica, ma che anzi permetta un contagio della responsabilità, del contenuto e delle regole dello stile. Nel mio caso utilizzo diversi registri quando scrivo, al fine di provocare un effetto necessario e rilevante alla lettura.
Se io stessa non sapessi stupirmi della mia ispirazione credo sarebbe del tutto inutile credere di avere successo ispirandomi alle foto di altri su instagram, preferirei mille volte avere progetti a scopo rinnovativo della letteratura che per intascare soldi dalla cultura, raggirandola. In questa necessità del rinnovamento anziché della retorica morbosa gli autori si sono corretti da sempre, nel caso si trattava di autori che si stimavano. La correzione è un effetto della volontà quando non collima nella necessità del comico. Il riconoscimento dovrebbe essere sempre libero da sospetti manipolatori, e anzi dovrebbe toccare alla critica la valutazione di uno stile letterario. Questo riconoscimento probabilmente non è nelle redazioni giornalistiche ma nelle aule universitarie e anche se i maggiori recensori degli anni zero scrivono in riviste culturali mi sembra evidente non entrare nelle contraddizioni dei poteri accademici e di quelli relativi alla stampa giornalistica. Anche se alla fine dei conti le istituzioni sono trasparenti e sembrano collimare in certi casi con il giornalismo culturale.
Ma ne siamo davvero convinti? Un fenomeno culturale come uno letterario è la scelta della decifrazione di un segnale, che necessita sempre di un faccia a faccia per conoscere le verità. Personalmente al momento leggo gli articoli di una certa critica che ritengo per me ispirata e non manipolatoria, faccio il nome di Galaverni, ad esempio, di cui seguo gli articoli su La lettura. Potrei fare il nome di altri giornalisti del Corriere a cui mi sono affezionata negli anni. Perché è importante assegnare un senso alla critica e al potere giornalistico? Perché l’impresa letteraria merita non una difesa proveniente da altri settori del sapere limitrofi ma perché affidarsi a giudizi addirittura retroattivi su una opera di qualsiasi genere mi sembra eccessivo. Quale è la sede dell’opera letteraria? Al vertice delle procedure letterarie e soprattutto degli ambienti io metto le biblioteche. I luoghi dove l’intimità è un intervento della discrezione, un invito a quella magica impazienza che deriva dalle indicazioni delle ispirazioni interiori e quindi destiniche più illuminate e degne del sé. Sono semore più convinta quindi che le biblioteche vengono a diventare i luoghi dell’attenzione, e della crescita culturale.
Che rapporto avete con le biblioteche? Nabokov racconta un episodio in Pnin dove il protagonista si dimostra al quanto recalcitrante all’idea di dove restituire un libro non ancora finito: “ Era ancora a un tiro di giornale dalla veranda quando si ricordò di un libro che la biblioteca universitaria gli aveva chiesto con urgenza di restituire per renderlo disponibile a un altro lettore. Per un momento fu in lotta con se stesso: il volume gli serviva ancora; ma il cortese Pnin era troppo sensibile all’appassionata protesta di un altro (sconosciuto) studioso per non tornare indietro a prendere il massiccio e pesante tomo: si trattava del volume XVIII – prevalentemente dedicato a Tolstoj – del Sovetskij Zolotoj Fond Literatury (II tesoro sovietico della letteratura), Moskva-Leningrad, 1940.” Ricordate la prima volta che siete andati in biblioteca? Se ci pensiamo è un po’ come imparare ad andare in bicicletta e in questo non voglio essere banale e retorica ma soprattutto per chi ha studiato all’università, come per la maggior parte di noi, le sale da lettura, i cataloghi, i corridoi, i dipartimenti sono familiari. E come potrebbero non esserlo con il loro odore di polvere di libri, e quel grigiore che ti riempie l’anima nelle sere d’inverno quando fuori piove. Le biblioteche custodiscono i migliori segreti che abbiamo assunto dai libri e dagli spazi dei dipartimenti.
Nei libri posso trovare riflessioni che sono proprie del giornalismo? Negli anni zero le riflessioni sono quelle postume la caduta del muro di Berlino, nell’anno in cui sono venuta alla luce. Parliamo ancora della voglia di abbattere le organizzazioni criminali, dei vaccini, della letteratura francese di Proust, Stendhal, Balzac, Houellebecq. Abbiamo parlato di Obama e parliamo di Trump, della Corea del Nord e dei conflitti internazionali. Del conflitto israelo-palestinese, del Ruanda, degli immigrati africani. Degli insanabili tormenti del medio-oriente. Abbracciamo notizie che vengono dal Sud America, dal Venezuela, dalla Nuova Zelanda, dalla Siberia. Con la globalizzazione degli anni Zero è possibile essere più veloci nelle notizie, e lo siamo, siamo velocissimi, ora. Ma quale è il tempo della riflessione, quella umana? Della scoperta?
Nei racconti di Margaret Atwood si parla di biblioteche, anche se la domanda centrale della raccolta che sto per menzionare è quella che si fanno le colleghe in pausa pranzo: «E voi, ragazze, avete fantasie di stupro?». Parlo della serie di racconti da “Fantasie di stupro e altri racconti” (Fantasie di stupro, Racconti Edizioni, 2018, trad. G. Cenciarelli).
Sia in “gioielli per capelli”, “le vite dei poeti”, “ballerine” e in “polarità” si fa riferimento alle biblioteche, ai dipartimenti, all’amore per i libri. “Fantasie di stupro” è una raccolta di quattordici racconti che illustrano la condizione di stupro o della fantasia di stupro, della violenza urbana, della difficoltà sociale di vivere la città per una donna, del maschilismo, dell’ipocrisia, dei sistemi sociali e le loro piccole beghe disoneste: una raccolta di racconti stile Atwood. Il tema portante è l’amore non corrisposto, il desiderio di realizzazione, la depravazione e il desiderio nelle donne. Se da un lato Nabokov ci lascia con l’esplorazione di alcune tendenze nell’uomo, tendenze che vanno nello scabroso, nell’illegale. Atwood ci addentra nella psicologia femminile con profonda perizia. Questi racconti sono occasioni per riflettere sull’eros raccontato da una donna e vissuto da una donna nel mondo attuale, quindi le visioni del passato scompaiono: siamo negli anni zero. Nei miei video pubblicati su youtube ho spesso citato la Deledda e Duras. Se la prima convoglia delle donne sia la profondità spirituale che l’erotismo nutrito di una cultura profonda e una tradizione popolare, Duras è una scrittrice spregiudicata che tiene conto dei fondamenti del desiderio erotico che per certi versi in letteratura femminile faticavano ancora a manifestarsi. Con la Atwood la storia della letteratura femminile e non solo del femminismo abbraccia il suo istinto, consapevole e critico e discute in un campo esplorato pienamente come pioniera e portatrice di atti. Il processo di realizzazione avviene spesso mediante l’utilizzo dell’ironia, della polemica, della denuncia; fortunatamente non esistono modelli di sconfitta che andrebbero anche contro ad un processo di pura conservazione. Su internet ho trovato articoli sull’argomento da altri animali, L’Espresso, il rifugio dell’Ircocervo, flanerí, mangialibri.
La protagonista del racconto “Gioielli per capelli” dopo una breve dissertazione sull’evocare i morti, e sul risorgere dalla morte usando l’abbigliamento, decide di intraprendere un volo per Salem per occuparsi di Nathaniel Hawthorne (uno scrittore statunitense del 1800). Un amore non corrisposto le impediva di scrivere il suo saggio accademico: «È più facile amare un demone che un uomo, anche se è meno eroico». Il racconto diventa una motivo per parlare dei seminari, dei libri reconditi da cercare in biblioteca, dei professori in ventiquattrore, del manierismo intellettuale. “Tra i miei attacchi di sonno pensavo a te, provando e riprovando il nostro futuro, che lo sapevo, sarebbe stato breve. Naturalmente, saremmo andati a letto insieme, anche se questo argomento non era stato ancora affrontato”. Al di là delle parti descrittive compaiono gli slanci di ironia e perspicacia taglienti e intensi, e la forza che li sorregge spinge naturalmente all’affiatamento. Quale donna non ha mai amato pur essendo non corrisposta? E non sono forse questi i sintomi di un amore non corrisposto in ambienti universitari? La protagonista passa molto tempo nella biblioteca di Salem conosciuta a livello mondiale per le sue genealogie che era anche un museo sui generis. Tornata a Boston fa una passeggiata con il “tu” che è l’altro di cui è innamorata, cerca di incontrarsi con lui a Pasqua ma questo incontro non avviene, fortunatamente la sua vita sentimentale si risolve. Anche in questa avventura di realizzazione femminile potremmo pensare che l’epilogo della vicenda è l’insegnamento dell’amore di coppia vissuto col corpo, soprattutto per le donne alle prese coi primi amori e con la verginità, l’amore non consiste semplicemente nel figurare l’altro, l’oggetto dell’amore come una entità astratta ma la divinità dell’amore è chimica, coincide nella sensazione dei profumi, dei sensi, del tatto. Solo attraverso quegli slanci si ottiene il beneficio della passione, certo una donna ragionevolmente non potrebbe mai slanciarsi verso un “uomo di tutte” sarebbe una logica di clan, di sistema non una logica d’amore, sarebbe terrificante una antropologia fondata sul sostentamento di donne che girano intorno ad un solo uomo del clan. Sicuramente il soggetto per un romanzo distopico. In tal senso è proprio delle lettrici, delle giovani donne coltivare degli amori platonici o adolescenziali, privi insomma della convivenza con l’altro. Ma è pur vero che la convivenza con l’altro si incontra nella società e se il modello e il sistema “società” presenta delle toppe comunque in un certo modo evidenzia una problematica.
In “Le vite dei poeti” la Atwood trasferisce l’attenzione su una altra protagonista femminile, una poeta che lavorava part-time in un archivio della biblioteca che poi si è messa a scrivere per una casa editrice di media grandezza che le aveva pubblicato un libro e ha ottenuto una borsa di studio come pure il marito pittore, Bernie. In questo racconto si affronta anche il tema della difficoltà economica nelle coppie e l’amarezza del tradimento. Atwood entra nei segreti delle relazioni uomo-donna indagandone la depressione che deriva dalla mancanza di attenzione del partner, perché nella passione inevitabilmente si viene a istaurare una subordinazione, un continuo dubitare e un affidamento.
Quale è lo spazio e il luogo dove in voi capitano le ispirazioni più alte, quelle che coinvolgono il vostro destino e che vi portate dietro come un tatuaggio indelebile? Probabilmente il luogo che ci regala endorfine o adrenalina, è il luogo dell’impulso, dove sentiamo di dover intervenire per noi stessi, di dover finalmente e opportunamente “fare qualcosa”. Questa vocazione non risponde agli istinti rivoluzionari di un popolo ma reputo che sia il cumulo di elementi preziosi provenienti dall’umanità che come un “genio critico” finalmente si sveglia dal sonno: quanti di voi quindi, di fronte a una scelta critica riescono a sostenere di voler testimoniare il falso o il vero manipolato? È ancora così negli anni zero che non si può avere fiducia negli intellettuali, nei giornalisti, nei politici? Non è cosi, fortunatamente. Di fianco a “un genio malato” dell’umanità esiste sempre e soprattutto il “genio critico” che muove le masse. Il traguardo della storia è la conservazione nonostante ciò che stiamo vivendo in questi primi anni del Duemila. Le biblioteche sono il luogo di quel “dover fare qualcosa”, sono il luogo giusto dell’adrenalina e dell’erdorfine.
Anche Jhumpa Lahiri ne “L’interprete dei malanni” (L’interprete dei malanni, Guanda, 2014), parla di biblioteche, in tre racconti, il primo “quando veniva a cena il signor Pirzada”, il secondo “la cura di bibi Haldar” e nel “terzo e ultimo continente”. Nel primo sullo sfondo le vicende di un Pakistan in guerra civile, e una bambina di Boston, Lilia. Lilia accoglie le visite di Pirzada e cerca di seguire i discorsi della guerra. A dieci anni può sembrare difficile parlare di sovranità, potere, guerra. I bambini non hanno come prerogativa i discorsi degli adulti, “guarda i bambini della tua età che devono fare per sopravvivere” gli diceva il padre. E Pirzada nel testimoniare una verità dice alla bambina che lo ringrazia per un lecca-lecca: “Cos’è questo grazie? La signora della banca mi ringrazia, il cassiere del negozio mi ringrazia, la bibliotecaria mi ringrazia quando restituisco un libro in ritardo, il centralino intercontinentale mi ringrazia quando cerca di mettermi in contatto con Dacca senza riuscirci”.
Siccome a scuola nessuno parlava della guerra, un giorno Lilia fu mandata nella biblioteca della scuola con l’amica Dora per fare una ricerca sulla capitolazione di Yorktown, “la signora Kenyon ci consegnò un foglietto con i titoli di tre libri da cercare nel catalogo”, anche qui la biblioteca è il ritorno a un sapere che abita in un luogo “sacro”, pieno degli spiriti di un Dna del piacere intellettuale. È così che viene insegnata a una popolazione giovane la vittoria di uno spirito che costruisce il futuro e lo racconta sulla base di un coraggio controcorrente, di un amore per la verità che nasce dalla chiara conciliazione dei desideri di educazione.
Nel racconto “Il terzo e ultimo continente” il protagonista è un immigrato indiano che lavora in diverse biblioteche per mantenersi, “la mattina dopo mi presentai al lavoro alla biblioteca Dewey, un edificio beige, su Memorial Drive, che ricordava una fortezza.”. Il lavoro alla biblioteca Dewey qui non è solo il segno di un rinnovamento culturale e un traguardo di speranza, ma è il desiderio di una felicità che coincide con la vita. “Mentre gli astronauti sono diventati eroi per avere speso poche ore sulla luna, io sono rimasto in questo nuovo mondo per quasi trent’anni. So che la mia conquista è abbastanza ordinaria. Non sono l’unico ad aver cercato fortuna lontano da casa, e sicuramente non sono il primo. Eppure, ci sono momenti in cui mi sconcerta, ogni singolo miglio percorso, ogni pasto mangiato, ogni persona incontrata, ogni stanza in cui ho dormito. Per quanto ordinario possa sembrare, ci sono momenti in cui tutto questo supera la mia immaginazione”.
Sabatina Napolitano