Volevo cominciare questo articolo definendo la fotografia come un percorso di piacere, una indagine sul piacere ma poi pensandoci su ho trovato indispensabile citare prima di tutto il Robert Adams di «La bellezza in fotografia» anche perché lui afferma che la composizione è un modo per decifrare la complessità della vita, che la struttura di una immagine è la forma della bellezza. La fotografia è bellezza e nudità quindi, in tutte le sue forme, partendo dalla sua natura comunicativa come reportage, come arte contemporanea, e finendo col parlare dell’enorme importanza che occupa in campo scientifico e nella ricerca. Custode di memorie e depositatrice di tradizioni e culture, la fotografia si fa sempre più vicina alla letteratura in prima analisi perché come arte funge da supporto narrativo ed è a contenuto narrativo. La connessione che esiste tra immagine e racconto è ormai paradigma già da più di cinquanta anni. La riproduzione su vasta scala ha permesso di considerare la fotografia non una arte specializzata ma comune. L’inclusione consiste nel considerare la fotografia non una arte autoreferenziale ma uno strumento potente raggiungibile da un pubblico ampio e vasto, così come la scrittura, il suo linguaggio è oramai onnipresente. Se l’ambizione meno astratta della fotografia è progettare la condivisione, estendere la documentalità, non dimentichiamo che l’aspirazione invece artistica è quella di dare alla fotografia una forza visiva non soltanto storica ma sopratutto poetica, privilegiata. Se quindi il complotto delle tecniche rilegherebbe la fotografia ad uno strumento di copia e riproduzione, l’arte le dona i suggestivi suggerimenti che la fanno vicina agli altari della critica d’arte. Se la fotografia è capace a riaccendere il desiderio? Nei suoi esiti artistici probabilmente sì, questo a partire dagli anni Settanta quando la fotografia divenne un’arte essenziale per un artista completo. I rituali fotografici sono comunque essenziali in ogni vita comunicativa: oggi un giornalista non è tale se non scatta delle foto per testimoniare una notizia. La fotografia riempie i blog di internet, le pagine dei giornali e delle riviste come immagine, ma il segreto dell’arte risponde al suo valore assoluto, irriproducibile. Infiamma gli spiriti come in un quadro di Bosch, La torre di Babele. Personalmente mi riesce sempre più difficile mancare di sovvertire i criteri letterari come se la fotografia non avesse in sé una premessa letteraria, penso al ciclo «Presenza, assenza» di Franco Fontana, ad esempio. Nella sua pubblicazione Mondadori «Fotografia creativa. Corso con esercizi per svegliare l’artista che dorme dentro di te» lui sottolinea che nel suo modo di vedere non solo la fotografia possiede la verità, ma che è quasi un tranello dell’anima a cui l’uomo contemporaneo non può sottrarsi. Interpretare come fa la fotografia non è solo una resistenza, e un esercizio di creatività ma sopratutto un esercizio di identità. Quello che accade è che anche nel flashare un colombo ci si può sentire illuminati, e dell’epifania resta una traccia, resta l’istante spontaneo, il ricordo che ti ha spinto all’azione e a saggiarla tra mille come scelta di coscienza e di memoria. Se quindi oggi per me è indispensabile citare Sophie Calle o Vibeke Tandberg, così come Sara Jones o William Eggleston questo accade perché la fotografia si carica di una suggestione tale che diventa anima, diventa simbolo e significato. Il giorno in cui è morta mia nonna io stavo leggendo un saggio di Charlotte Cotton, e la mattina (mia nonna è morta la sera del 30 settembre del 2019) avevo condiviso come immagine di copertina su fb una foto di Sarah Jones, The Bedroom. Perché in quel momento per me così tragico ho trovato che la fotografia anziché la poesia potesse aiutarmi a superare lo scoraggiamento? Perché mia nonna era in ospedale ed io nella mia stanza, una parte remota e infantile di me stava già abbandonando la nonna. Una parte di me era come in quella figura della foto. Una poesia mi richiedeva uno sforzo di analisi che non riuscivo a compiere in quello stato d’animo, leggere un libro mi chiedeva una attenzione e una concentrazione, una lucidità che non sapevo trovare. Mia nonna mi stava lasciando e la mia anima gridava. Io non conosco nella vita Sarah Jones e il suo nome poteva risuonarmi come un lontano Cartier-Bresson o Brassai. Solo quella foto in quelle ore riusciva a cristallizzare le emozioni della mia mente, dovevo rifiutare la vita con la morte di mia nonna. Dovevo inoltrarmi in un nuovo lutto ed ero completamente sola. Con i miei anni di scrittura mi sono sempre più convinta, testimoniando a me stessa delle verità incredibili, che la vera fotografia così come la pittura è capace di un esercizio dell’interpretazione dell’anima. In questo interesse del «dentro» esiste il vero ponte tra fotografia e letteratura, in questo vero «avvertire», in questo «incredibile cedersi» anziché «celarsi». Una volta addentrati nella storia della fotografia riusciamo tacitamente a coglierne il significato profondo, come iniziati all’obbiettivo della fotografia che conserva lo stesso processo della letteratura. Ora ho imparato il significato della sofferenza e ho superato il lutto, ma mi sento ancora debitrice per quella foto di Sarah Jones. Mesi di analisi non mi avrebbero restituito quel supporto iconico per mandare avanti il mio dolore. Questo poteva farlo solo la pittura nei secoli passati. La fotografia facilita il compito del vivere esprime un contenuto umanitario e merita le stesse pretese della letteratura. Cosa può fare una inquadratura se non tornate a scegliere progresso, antropologia, creare storia. Il gesto epico della cronaca tanto più che il virtuosismo della tecnica apre lo spazio della riflessione, si dice che la fotografia sia un arte sinestetica, che riesce a raccontare tramite un elemento individuale una visionarietà o uno smarrimento comune. La fotografia in questo senso, sviluppa le pratiche risolutorie che nascono da quel disagio che abbiamo lasciato irrisolto nelle nostre indagini interiori, è fuori dallo spazio delle finzioni, più vicina alla disposizione del racconto. Se quindi la fotografia è il sacrificio del racconto (o forse è il contrario, ma è possibile stabilirlo?) è anche perché vive lo spazio della natura cioè della realtà. Una certa fotografia artistica tende a drammatizzare il rapporto con la realtà, rifuggendo la performance politicizzata e anzi sottolinea il fascino dello strumento fotografico togliendo valore agli oggetti, mi viene ad esempio in mente una certa fotografia di Tastumi Orimoto. Il suo «bread man» nei ritratti con la madre riporta all’impatto della figura intellettuale e concettuale del fotografo nella società: ancora una volta l’atto e l’evento fotografico si trasformano in uno strumento educativo, il pane che usa Orimoto per i ritratti con la madre malata di Alzheimer diventa un esempio e una controprova che la fotografia fa sul serio. Si può definire brutale un happening secondo queste misure? A mio dire non lo è. Se prima l’artista si pronunciava secondo una committenza ora la libertà acquisita gli permette di ricoprire un mandato sociale e intellettuale con una intuizione collettiva. A tal fine potremmo dire che delle idee fotografiche oggi sono più veloci di un risultato letterario, ne siamo coscienti ora più che prima della pandemia. Le fotografie che hanno fatto il giro del mondo degli infermieri e dei medici che ininterrottamente hanno lavorato per la salvaguardia della salute hanno emozionato e sconvolto sperimentando una presa di ruolo della fotografia senza pari.
Questo intervento è un estratto dal mio saggio “L’intima tessitura”.
Sabatina Napolitano