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Il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali dice che una persona per essere un narcisista deve avere cinque tra i nove sintomi del disturbo, tra questi la richiesta di ammirazione eccessiva, la tendenza ad approfittare degli altri per raggiungere scopi, una modalità affettiva di tipo predatorio, la mancanza di empatia e la preoccupazione di essere avvicinati da persone di uno status “alto”, ambito, che lo confermino speciale e privilegiato.

Freud in “Introduzione al narcisismo” del 1914 definisce il narcisismo come una perversione, “che ha assorbito l’intera vita sessuale dell’individuo”, i malati di questo tipo sono definiti “parafrenici” con due caratteristiche fondamentali, “il delirio di grandezza” e il “distacco del loro interesse da persone e cose del mondo esterno”.

Nel narcisista a differenza dell’isterico o del nevrotico ossessivo non si è interrotto il rapporto erotico con le persone o le cose, quando si interrompe questo rapporto con ad esempio manifestazioni complesse di manie di grandezza, comincia a essere vicino all’atteggiamento del parafrenico, quindi inscrivibile nel patologico e non nella semplice “pulsione di autoconservazione”, ed è questo il caso in cui il narcisismo diventa una realtà psichica, una patologica clinica. In questo saggio Freud distingue e distingue le pulsioni sessuali dalle pulsioni dell’Io, distingue un narcisismo primario da un narcisismo secondario. Nel narcisismo primario il bambino investe tutta la carica erotica su di sé, nel narcisismo secondario c’è una regressione, un ritorno ad una libido sottratta dagli oggetti e riportata nell’Io.

Vittorio Lingiardi nel saggio “Arcipelago N. Variazioni sul narcisismo” (Einaudi, 2021) sottolinea che proprio Freud fu il primo a teorizzare lo sviluppo della patologia mentre Isidor Sadger, allievo di Freud, importa il vocabolo nella psicologia analitica.

Nel saggio Lingiardi con grande sensibilità interpreta il narcisismo dal mito al caso clinico attraversando poeti come Sereni, Rilke, Lorca, Valery, Dante, Heaney, Plath, Eraclito, Borges; filosofi come Bachelard, Benjamin, Kiekeggard; analisti come Freud, Jung, Sadger, Recalcati, Jaspers, Klein, Rosenfeld, Winnicott, Green, Kenberg, Kohut; scrittori come Gadda, Lagioia, Trevi, Woolf; sociologi come Lasch, Bauman.

Lo psichiatra risolve il narcisismo sociale in tre dinamiche: la mistificazione della politica, la mistificazione del corpo e la mistificazione delle relazioni. Sono riferibili ai casi di mistificazione politica gli studi precocemente affrontati dal Freud di Psicologia delle masse e analisi dell’Io del 1921, il narcisismo sociale alimenta fenomeni di odio sovranista, misogino, transfobico, passando quindi attraverso l’idealizzazione di leader potenti da un lato, e l’identificazione di modelli idealizzati cui appioppare le vulnerabilità sociali mentre i gruppi minoritari e deboli vengono fagocitati. Con la mistificazione del corpo il narcisismo è la scelta condivisa e ormai data per routinaria di mostrare il corpo negando la caducità rispondendo quindi all’appellativo di ossessione, mancanza di misura, esibizione. Le relazioni invece per Lingiardi soffrono della dimensione della dipendenza che di fatto diventa virtuale, basti pensare ai fenomeni del ghosting, dello zombieing, dell’orbiting; in più la nostra società sviluppa un certo orrore della vecchiaia così come la banalizzazione delle relazioni e del loro linguaggio. il ripiegamento narcisistico è naturale eccezione nell’era dei selfie, whatsapp, instagram, facebook, tiktok. 

In ogni caso al di là della psicologa Narciso è diventato uno dei protagonisti indiscussi della nostra cultura, nelle Metamorfosi di Ovidio, Narciso, figlio di Cefiso (fiume della Focide e della Beozia) e di Liriope, disdegna l’amore di Eco, specchiandosi nell’acqua si innamora del suo riflesso così muore nel lago trasformandosi in fiore. 

Nel libro III è presentato con queste parole: “Prima fide vocisque ratae temptamina sumpsit/ caerula Liriope, quam quondam flumine curvo/ inplicuit clausaeque suis Cephisos in undis vim tulit”. 

In effetti Tiresia profetizzò alla mamma di Narciso (violentata da Cefiso) che suo figlio avrebbe visto la vecchiaia se solo non avesse conosciuto se stesso: “Enixa est utero pulcherrima pleno/ infantem nymphe, iam tunc qui posset amari,/ Narcissumque vocat; de quo consultus, an esset/ tempora maturae visurus  longa senectae,/ fatidicus vates -si se non noverit- inquit”. 

Una profezia quanto mai ambigua, vivrà e sarà vecchio, “si se non noverit”, “se non conoscerà se stesso”. 

Se quindi la libido è una forma di passione, quando finisce per essere canalizzata sulla personalità uccide anziché farci sentire vitali. Così dopo quindici anni il giovane Narciso cresce, arriva ai suoi quindici anni, desiderabile e desiderato da tante. Ma nessuno riuscì mai a toccarlo. Narciso era ripiegato troppo su se stesso, dalla profezia di dover essere ripiegato nella sua stessa superbia. 

Un giorno mentre il giovane spaventava cervi, fu visto da una ninfa che poteva solo un “uso ridottissimo della sua voce”, si tratta di Eco che punita da Giunone, non poteva parlare ma solo ripetere i suoni di quando uno finisce di dire. 

Narciso va incontro alla sua morte attraversando Eco, aveva ormai sparso troppo dolore tra le ninfe dei boschi, era il caso di arginare il suo delirio.

Nemesi infatti, anche chiamata Ramnunte, quale dea della vendetta decise di chiudere al giovane le porte dell’amore, dal momento che non si era mai legato e sapeva presto disprezzare chiunque si avvicinasse a lui malato di cupidigia e tanto sciocco da riuscire a desiderare di afferrare l’immagine di se stesso. “Se cupit inprudens et, qui probat, ipse probatur,/ dumque petit, petitur, pariterque accendit e ardet” (Desidera, senza saperlo, se stesso; elogia, ma è lui l’elogiato, e mentre brama, si brama e insieme accende e arde. Ovidio, Metamorfosi, III, 425-426).

Da qui si consuma la nota tragedia ripresa da Carmelo Bene, ne La voce di Narciso, per farne una critica all’io, al rapporto del teatro col pubblico, Narciso vuole annientarsi, soprattutto “Narciso ha paura dell’eterno ritorno”.

Narciso distratto da Eco, e allontanatosi dagli altri giovani, si trovò quindi da solo, “in una fonte senza un filo di fango, dalle acque argentate e trasparenti (…) che mai era stata agitata da un uccello o da un animale selvatico o da un ramo caduto dall’albero”. Ecco che il giovane fanciullo quindi, si trova per la prima volta alle prese con la scoperta della libido, costretto a riflettere sulla natura del desiderio.

Non è importante che il desiderio di Narciso sia un desiderio omosessuale, non è importante che Narciso non riesca a difendersi, e che si trovi così in difficoltà di fronte ai torpori della passione, scoprire la passione per la prima volta da soli, decide molto dell’identità “Quisquis es, huc exi!/ Quid me, puer unice, fallis?/ Quove petitus abis?/ Certe nex forma nec aetas” (Chiunque tu sia, vieni fuori!/ Perché mi illusi, fanciullo unico al mondo?/ Dove te ne vai mentre io ti desidero?” Ovidio, Metaformosi, III, 454-455).

Vanità, autoerotismo, la simbologia dei “daffodils” sono ripresi dai poeti romantici in particolare da Keats che scrive nell’Ode su un’urna greca “La bellezza è verità, la verità è bellezza. Questo è tutto/ ciò che dovete sapere sulla terra, tutto ciò che vi occorre sapere”.  

Il dipinto di Narciso attribuito a Caravaggio (Narciso, Caravaggio, 1597-1599, Palazzo Barberini, Galleria Nazionale d’Arte Antica) conservato al palazzo Barberini di Roma, raffigura il giovane che si osserva ammaliato nel lago che di fatto è la superficie di uno specchio, non ha onde, non ci sono movimenti, il suo fondo è nero. Il giovane è innocente che da quello specchio, da quella porta possa esistere la morte e niente lo raccomanda alla vita, non c’è alcuna soluzione di dialogo, nessun input esterno che possa coinvolge il ragazzo a tornare ai giochi, a liberarsi dalla trappola dell’inganno, non ci sono luci. Questa tensione è tipica del genio caraveggesco che riusciva a penetrare profondamente la psiche degli uomini e dei suoi soggetti. L’amore è follia, e quello specchio di lago è lo specchio della morte.

Nella versione di Poussin (Nicolas Poussin, Eco e Narciso, ca. 1629-1630, Museo del Louvre, Parigi) conservata al Louvre, invece Narciso non è solo, non è malato, spersonalizzato, succube del delirio, anzi, è accompagnato sullo sfondo da due figure, Eco ormai lontana e un amorino con una fiaccola accesa. In Poussin l’albero che è al centro della scena rappresenta la costruzione del dramma, che riprende una triangolazione fatale.

L’albero centrale orienta il lettore alla lettura del mito, in fondo una Eco incapace di comunicare, castigata, umiliata e offesa, destinata a diventare roccia, a dover essere una presenza incapace di azione, incapace di disturbo. Un amorino che invece guarda assente e lontano, perché la fiaccola continua a bruciare e infine un bellissimo giovane uomo, malato, fragile, in punto di morte.

Narciso è quindi il mito dell’individualismo nella modernità che Lasch aveva già teorizzato nel corso degli anni Sessanta e Settanta. Quella stessa modernità che Guido Mazzoni nel saggio I destini generali (Laterza, 2015) individua descritta in Italia da Pasolini. In Italia la mutazione antropologica che ha trasformato le classi popolari e la piccola borghesia clerico-fascista in nuova borghesia laica è diventata la nuova classe media vitalista aggressiva, edonista, disincantata, che ha incorporato il libertinismo e l’anticonformismo.

Il risultato di questa mutazione sociale in letteratura coincide anche con le intuizioni di Gadda, Siti e Pasolini. Lingiardi sottolinea che Gadda nel suo breve scritto “Emilio e Narcisso” si concentra sulla carica autoerotica di Narciso che è annichilata e disciolta in un riflesso del lago che altro non è che la società dominata dalla vita creaturale, dall’impossibilità di modificare la realtà e dalla visione della vita come “pura immanenza” così come riprende Mazzoni, dove “ogni individuo persegue il proprio interesse personale o familiare” e dove “ogni regime politico si equivale”.

La sofferenza di questo giovane, che si contempla per uccidersi è il segno di una mente sociale che senza riflessione è priva di ragguagli, è segno di una morte che offusca i nuovi disagi della civiltà. Naturalmente una civiltà non può essere riflessa dai narcisi che dominano la cultura, dagli spettacoli televisivi, dagli influencer. La soluzione di linguaggio per questa nuova classe media mossa dalle logiche del consumo e dello spettacolo, è una persistenza delle ragioni più consapevoli, di apparizioni mediatiche più responsabili. Si può parlare di disturbo della civiltà o peggio ancora di disturbo della società se la società intera soffre di un disturbo. Questo è il caso del narcisismo che sembra che di fatto ci stia lasciando all’era dei selficidi senza la forza e la possibilità di attuare un sistema di difese che dialoga col passato, e non si arrende ai mezzi del presente.

Ritorniamo ogni volta a quello stadio dello specchio che Henri Wallon anticipò e venne ripreso da Lacan: costruire una nuova soggettività umana, costruire una cultura alla realizzazione delle identità, è un passo che spetta naturale non solo a chi si occupa della psiche di una società, a chi si occupa degli aspetti biologici e somatopsichici, non solo ai terapeuti, ai politici o a chi si occupa di istruzione, è un compito di tutti non lasciare morire Narciso. Se quel ragazzo ancora muore nei giovani, nella società, nelle famiglie è una tragedia collettiva che integra le altre tragedie come la pandemia, ad esempio. Se lasciamo morire quel giovane quindicenne riflesso in sé stesso, come il professore trentenne, o il pensionato ottantenne lasciamo morire la società di disperazione, deriva, mancanza di identità. Se lasciamo che quel giovane se ne stia da solo mentre le masse non vedono, soccombono, si ingannano e pensano al proprio piacere privato credendo di fare del bene a creare delle mode deleterie e raccapriccianti, lasciamo morire un po’ di noi, del nostro senso civico, della nostra cultura, della tradizione e della famiglia.

Sabatina Napolitano

News Reporter
Sabatina Napolitano è nata a La Maddalena (SS) il 14 maggio del 1989. Ha pubblicato otto libri di poesia. Suoi testi sono usciti su Nazione Indiana, La poesia e lo spirito, Neobar, Bibbia d’asfalto, Poesia del nostro tempo, Gradiva, etc. Alcuni racconti su Quaerere, l’Incendario, Sguardindiretti. Origami è il suo primo romanzo edito Campanotto, 2021. Recensisce, collabora e intervista autori di poesia, narrativa e saggistica ed è una studiosa dell’opera di Nabokov. Edita, corregge, insegna, intervista, recensisce, scrive.
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