Ricordiamo spesso con piacere i momenti trascorsi ridendo. Dai tempi antichi la risata è considerata per sciogliere le tensioni, per scherzare tra amici, per fare gruppo o deridere qualcuno, qualcosa, o le convenzioni, per deridere la superstizione, l’irrazionalità degli uomini, per mettere alla berlina i vizi, per divertire il pubblico, addirittura per i greci e i latini la risata era una divinità. D’altra parte per i Romani e per i Greci, il riso poteva essere una faccenda estremamente seria, nonché un elemento dell’enciclopedia culturale. “I Greci, i Romani e… il riso” (Carocci, sfere extra, pp. 212, euro 16,00) è un libro pubblicato da Tommaso Braccini nella collana curata da lui e Simone Beta. Attraverso una selezione di brani antologici (dall’Odissea, dal Margite, dalle opere di Luciano, di Pseudo-Nonno, dal Trattato Coisliniano, dal Philogelos, dalle Chiliadi di Giovanni Tzetze, dalle Lettere di Ippocrate, dal Corpus esopico, da Lucillio, da Aristofane, Petronio, Eliano, Plauto, Macrobio, Cicerone, Quintiliano, Demade, Senofonte, Plutarco, Omero, Marziale, Luciano, e tanti altri) si analizza come il riso ha influenzato le sorti anche e soprattutto della nostra cultura. È facile pensare che la risata così come le spiritosaggini sono strumenti per comprendere la civiltà. È evidente come il modo che si ha di ridere nei talk show americani è diverso da quello che abbiamo noi in tv. L’antichità è la chiave attraverso la quale riflettiamo l’epoca contemporanea nelle antiche radici. E del resto come il segretario Tirone, aveva raccolto le battute di Cicerone in tre libri, così anche Giulio Andreotti negli anni Ottanta e Novanta vantava raccolte come “Onorevole stia zitto” e “Il potere logora… ma è meglio non perderlo”. Non possiamo dimenticare che larga parte della letteratura comica comprende le descrizioni delle risate. Nel Trattato Coisliniano, – un trattato di appunti dedicati alla commedia contenuti in un manoscritto del X secolo e considerato il riassunto della Poetica di Aristotele – viene esplicato che “la commedia è imitazione di un’azione ridicola e mancante di grandezza, completa, tramite linguaggio artistico, con ciascuna delle parti distinta nei suoi aspetti, recitata e non narrata, che per messo del piacere e del riso, procura la catarsi di tali passioni. Ha come madre, a sua volta, il riso”. Si aggiunge allora “il riso scaturisce nel caso che uno pur avendo ampi mezzi si attacchi alle cose più meschine”. Quale è il nostro atteggiamento di lettori di fronte alla spiritosità dunque? Ci mettiamo dalla parte dei filosofi cinici capeggiati da Diogene usando il buon senso al servizio della razionalità? Le opere di Aristofane e Plauto, ad esempio, sono costellate di scene e battute molto divertenti che generano nel pubblico fragorosi scoppi di risa che nei secoli sembrano non aver perso la loro vis comica. Nel “Commento ai sermoni di Gregorio di Nanzianzo di Pseudo-Nonno” si racconta la storia di due fratelli, i Cercòpi, che tramite la loro arguzia erano stati capaci di far divertire Eracle salvando il loro destino. All’inizio la storiella era stata attribuita a Omero ed era molto celebre a partire dal VI secolo a.C. Passalo (“Paletto” o “Membro virile”) e Aclemone (“Incudine” o “Pestello”) erano famosi per le loro bricconate e mascalzonate, e la loro madre, Memnonide, gli aveva consigliato di stare alla larga da «colui che aveva le chiappe nere». Così un giorno volendo rubare delle armi appoggiate su un tronco si trovarono legati a testa in giù da Ercole. Vedendo il sedere di Ercole ricoperto di peli si divertirono a commentare tanto che fecero sbellicare dalle risate anche Ercole che per questo li liberò. Tornando a Diogene Laerzio, biografo dei filosofi vissuto tra il II e il III secolo d.C, nello Gnomologio Vaticano viene raccontato come lui essendo conosciuto per le battute caustiche, e l’atteggiamento anticonformista, si sapesse difendere bene anche di fronte ad Alessandro Magno, l’uomo più potente della terra:
Una volta Diogene chiese ad Alessandro una dracma, è quello replicò: «Non è un dono da re». Diogene allora gli disse «Dammi un talento, dunque», e quello rispose: «La richiesta non è da cinico».
Brani tratti dall’Antologia palatina si trovano al capitolo sei (Il riso a banchetto) e sette (Ridere degli altri, ridere dei diversi), testi da Marziale al capitolo sei, sette e otto (Il riso senza pudore), da Petronio al capitolo sei e otto. Dall’Antologia Palatina l’autore sceglie un epigramma di Lucillio, di Nicarco, Luciano, di Pallada, di Ammonide, di Teodoro, di Leonida, di Ammiano. Si tratta di epigrammi intorno al simposio, di poeti morti, di chi non sa cantare, di chi mangia troppo, di scale troppo lunghe, di body shaming. Del più grande epigrammista, Marziale, oltre alle spiritosaggini intorno al simposio, e sull’età e sulle ernie (e simili), di alitosi e scatologia, di poesia fecale, si legge un epigramma di umorismo basato sul sesso.
Per chiudere e lasciarvi con l’acquolina, al capitolo otto Braccini sceglie di riportare due famose novelle erotiche tratte dal Satyricon, la storia del Fanciullo di Pergamo, e quella della Matrona di Efeso. Al capitolo sei invece sceglie la tirata di Ermerote contro il letterato Ascilto e il suo ragazzino Gitone durante la celebre cena di Trimalchione del Satyricon di Petronio:
«Che il Genio di questo luogo mi protegga, giuro che se fossi stato sdraiato vicino a lui, ci avrei pensato io a farlo smettere di belare! Proprio un bel tomo, sì, che se la ride degli altri: ma chi lo conosce questo vagabondo, questo farabutto che non vale neanche una pisciata? Insomma a questo se gli piscio intorno non saprà dove andare a sbattere con la testa. Per Ercole, io non sono uno che si scalda facilmente, ma a fare finta di nulla poi la gente ti viene a mangiare la pappa in capo! E questo ride. Ma che hai da ridere? Vai, che la mamma ha fatto gli gnocchi!».
