James Purdy, uno dei maggiori scrittori americani, non ebbe mai un grande successo di pubblico, nemmeno dopo essere stato finalista a premi importanti come NBA e PEN/Faulkner. Qualcuno paragonò le sue opere a un fiume sotterraneo che attraversa, non visto, terre e panorami d’America. La poetessa inglese Edith Sitwell, dopo aver letto un suo testo, gli scrive: L’ho letto due volte. Che libro meraviglioso! Si tratta di un capolavoro da ogni punto di vista. Non c’è il minimo dubbio che voi siate un grande scrittore, e posso solo dire che sono piuttosto commossa. Quale angoscia, quale penetrante senso della verità!
Tuttavia il suo rapporto con l’editoria americana fu sempre difficile. Respinto a lungo dalle principali case editrici, scrive una potente satira sul mercato editoriale americano, Cabot Wright ci riprova, in cui l’editore Princeton simboleggia l’editoria americana. Di lui Purdy scrive: Princeton può fiutare un vero libro e un vero scrittore da lontano e allora si mette subito all’opera per far sì che non si senta più parlare di lui. E’ come l’America: si oppone alla qualità.
Della società americana infatti dice: Nessun altra nazione ha mai messo una faccia così falsa sopra la maschera umana.
Di questo scrittore vorrei sottolineare l’ironia fulminante, lo stile asciutto, essenziale, privo di fronzoli, ma acuminato. Il modo defilato di iniziare una storia. A volte i suoi incipit sono davvero poco promettenti e curati. Bisogna andare avanti perché le pagine acquistino consistenza e calore. I temi di molte storie sono torbidi e respingenti. Non si tratta dei soliti amori gay di cui è piena la letteratura americana. Non sono le storie alla David Leavitt, i cui racconti della raccolta Ballo di famiglia, tra l’altro bellissimi, ci mostrano persone al confronto serenamente omosessuali. Le storie di Purdy sono meno allettanti, meno facili e accattivanti. Sono racconti che esprimono un intenso disagio e sofferenza, parlano di violenze, abusi e soprusi, di genitori castranti. Sono storie durissime e spesso altamente simboliche e dunque di difficile lettura, a cui la interpretazione letterale va quasi sempre stretta. Ultimamente le case editrici SE e Racconti hanno riproposto alcune sue raccolte di racconti, bellissime. Voglio però segnalare un breve romanzo: il nipote, edito anni fa da Minimum fax e ora introvabile. Un gioiello letterario che esula dalla scabrosità della produzione purdiana e che in un certo senso si eleva sulle paludi della società marcia descritta in quasi tutta la sua opera.
Il romanzo è ambientato a Rainbow (Arcobaleno): nome ovviamente simbolico. Il racconto parte senza darsi troppe arie, come tutti o quasi i romanzi/racconti di Purdy in cui gli incipit non sono la parte migliore. Entriamo in tutte le poche case di Rainbow e in ognuna c’è un problema di cui il resto del paese potrebbe discutere piacevolmente come succede quasi sempre nei piccoli centri. C’è l’omosessuale, l’alcolizzato, la fanatica di una setta religiosa, la ragazza tiranneggiata dalla madre e i due protagonisti, ovvero la zitella Alma che convive con il fratello vedovo, ambedue senza figli. I due fratelli hanno però cresciuto un nipote che scrive loro lettere vaghe, finché a un certo punto non arriva una lettera del governo, vaga anch’essa, per avvisare che l’amato nipote è disperso. Inizia a questo punto una specie di percorso di recupero della memoria del ragazzo, che porta il lettore ancora di più nel cuore del paese, dove tutte le vite dei vicini diversamente fallimentari si armonizzano in un arcobaleno umano di comprensione e tolleranza per le altrui debolezze fino al finale in crescendo. Io credo che un libro del genere debba essere proposto ai ragazzi delle nostre scuole, dato che esprime in modo così bello come la tolleranza e la solidarietà possano far diventare un posto che ospita persone tanto diverse un paradiso. Voglio immaginare che anche James Purdy abbia effettivamente trovato il suo Rainbow nella casa dell’amica pittrice Gertrude Abercrombie, frequentata da moltissimi artisti dell’epoca, compresi tanti musicisti jazz.
Credo, che Purdy abbia sentito sempre il peso del corpo, ma che abbia anche sperimentato la possibilità e la libertà di elevarsi al di sopra di esso con le ali di un amore che non chiede tornaconto (come l’amicizia di Gertrude) come si intuisce anche nel Nipote, di cui mi auguro una ripubblicazione. Certo Purdy non ci colpisce per lo stile, a volte gli incipit sono quasi tirati via, ma per l’efficacia delle parole, di come vanno al segno. Io credo che in un grande scrittore non è per forza lo stile che deve saltare agli occhi come avesse vita propria, ma il fatto che esso forma un tutt’uno con il contenuto, in modo che la freccia della scrittura vada dritta al bersaglio, cuore o testa che sia.
O hai sbagliato nome dell’autore o dell’articolo. In ogni caso grazie