Hannah Arendt e Martin Heidegger, ovvero la banalità dell’amore

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L’amore impregnato di filosofia. L’amore di Hannah Arendt per Martin Heidegger. L’amore di una vita segnata dalla Germania di Hitler con le sue profonde ferite e contraddizioni.

Un viaggio nella banalità del male e dell’amore, quello messo in scena al Teatro India di Roma. La banalità dell’amore, tratto dall’omonimo romanzo di Savyon Liebrecht, è una pièce per la regia di Piero Maccarinelli che spezza il fiato e che con garbo ci guida nei meandri della filosofia. Un binomio azzeccatissimo nel mostrare le storture della Storia, così attuali da rendere inquietante il presente.

La professoressa Arendt (Anita Bartolucci) accetta l’intervista da un sedicente dottorando dell’Università di Gerusalemme (Michael Ben Shaked interpretato da Giulio Pranno). La grande intellettuale desidera chiarire il suo pensiero, spesso travisato, ad arte aggiungeremmo noi, per depotenziare la forza intellettuale della donna. In mezzo però c’è la discussa storia d’amore con il filosofo Heidegger (Claudio Di Palma), di cui non vuole parlare nell’intervista, ma che pesa come un macigno nella sua vita.

Chi è veramente lo studente universitario? Qualcuno che Hanna Arendt sembra conoscere, ma non saremo noi a svelare il mistero, perché in questo lavoro c’è una parte di giallo che non può essere raccontata. Possiamo dire che grazie a questa intervista la Arendt ripercorre il passato e attraverso dei riusciti salti temporali, sulla scena vediamo la protagonista appena diciottenne (Mersila Sokoli nei panni di Hannah Arendt giovane) nella prima fase della storia d’amore con Heidegger, le speranze, le delusioni, l’amico di una vita (Raphael Mendelsohn, sempre interpretato da Giulio Pranno) che tradisce per seguire il discusso professore, la fuga dalla Germania e la consapevolezza che l’uomo amato ha abbracciato il lato sbagliato della Storia.

Hannah Arendt si e’ fatta parecchi nemici dopo aver scritto il suo libro più famoso La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, un diario sulle sedute del processo a Adolf Eichmann a cui lei partecipò in qualità di inviata del settimanale The New Yorker. In quella circostanza fu accusata di antisionismo, ma la filosofa spiega al pubblico che il suo fine era quello di criticare la politica di Ben Gurion, non quello di mettere in discussione lo Stato di Israele. L’intervista è l’occasione per mettere ordine alle false notizie che circolano sul suo conto, ma scopriamo in realtà che quell’appuntamento si trasforma in una trappola.

Nessuno le perdona di aver amato il filonazista Heidegger, una macchia che si porterà dietro per tutta la vita. Ma la professoressa Arendt, ancora  laureanda, era affascinata dalla dialettica del filosofo tedesco. Ne subodorava le contraddizioni e si inquietava quando chiedeva all’amato se non fosse preoccupato per Hitler e la sua politica aggressiva. La risposta scanzonata e apparentemente leggera del filosofo non faceva i conti con la crudeltà del personaggio storico. L’orrore si affaccia nella storia di Hannah Arendt, ma il suo amore grande per Heidegger sembra rimanere intatto, affatto scalfito dalla cruda realtà.

In un salotto signorile pieno di mobili antichi, divani d’epoca e tanti libri si muovono i personaggi di uno spettacolo da non perdere. La profondità del testo e della regia, insieme alla bravura degli attori, fanno parlare la Storia attraverso un ponte tra passato e presente. I salti temporali permettono di calare la tragica nefandezza nazista alle questioni politiche di oggi: l’annientamemto di Gaza, la colpevole confusione tra ebrei e israeliani, la deplorevole abitudine di cercare un colpevole a ogni costo, la dicotomia tra bene e male sempre troppo netta. Fattori che ci spingono a riflettere che mai dobbiamo abbassare la guardia, che mai dobbiamo dare nulla per scontato e che le contraddizioni fanno parte degli esseri umani per il semplice fatto di stare al mondo. Ne è testimone la grande Hannah Arendt, ebrea costretta ad abbandonare la Germania nazista, punita anche per il suo grande amore per Martin Heidegger, che con quel nazismo era fortemente compromesso.

La banalità dell’amore

di Savyon Liebrecht

adattamento e regia Piero Maccarinelli

con Anita Bartolucci, Claudio Di Palma, Giulio Pranno, Mersila Sokoli

scene Carlo De Marino

costumi Zaira De Vincentiis

disegno luci Javier Delle Monache

musiche Antonio Di Pofi

aiuto regia Emanuela Annecchino

assistente costumi Francesca Colica

costumi Tirelli

foto di scena Claudia Pajewski

produzione Teatro di Roma – Teatro Nazionale

Visto per voi al Teatro India di Roma il 13 maggio 2025

News Reporter
Andrea Mauri è nato nel 1966 a Roma. Lavora in Rai e si occupa dell’archivio multimediale presso Rai Teche. Ha pubblicato il romanzo mickeymouse03 (Alter Ego, 2016), due racconti lunghi nel libro L’ebreo venuto dalla nebbia (Scatole Parlanti, 2017), il romanzo Due secondi di troppo (Il Seme Bianco, 2018) e le raccolte di racconti “Contagiati” (Ensemble, 2019) e “Ragazzi chimici – Confessioni di chemsex” (Ensemble, 2020), quest’ultimo lavoro insieme ad Angela Infante. La recente sua pubblicazione è il romanzo Il passo dell’ombra (Affiori, 2024). Scrive racconti su antologie, riviste letterarie e blog.

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