Diario di un autodidatta – Alfonso Guida

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09 Maggio 2025 | Francesco Mola

Anche se dovessimo scegliere casualmente singoli versi o parte di essi per ogni composizione presente su “Diario di un autodidatta” di Alfonso Guida, si riuscirebbe comunque a tratteggiare il profilo più realistico di colui che della parola ha fatto strumento di distruzione del sé a ogni nuovo ciclo – di destrutturazione animica invero, non senza dolore – confermandosi ancora, come se ce ne fosse bisogno, manifesto vivente d’autenticità senza fronzoli illusori o vie di fuga.

E la parola preme come sui fori di un confessionale, insiste fino a sfondare i filtri, fino a venirne fuori, palesata alla luce cruda del mondo manifestandone l’essenza nella nudità oltraggiosa, blasfema dentro l’urlo che si fa comunione con la misticità del silenzio in esso contenuto, già priva di orpelli e sovrastrutture. “La mia voce sparsa in un confessionale impolitico”. Uno spargimento, quello di Guida, che non lascia spazio a compromessi tra alternanze stilemiche auliche e prosaiche: “Pioppi bianchi, panchine, bar, ragazzi, da succhiare, da fumarci spinelli, da parlare di tatuaggi e fumetti. L’eccesso eccellente di Ceres Raffo Peroni – disperato sballo eretico, stradale, bestiario teratologico, clandestino, illustrato dal Dorè…”.

La Lucania rocciosa, luogo d’origine che s’innesta alle strade urbiche romane, aggrappandosi a confluenze mnemoniche: terra di mezzo, emblema di mezzogiorni sospesi tra silenzi d’entroterra montani e abissi marini, terra d’esilio dal reale, o forse via d’accesso privilegiata per esplorarne le profondità in cui l’autore sembra precipitare per poi risollevarsi, trascinandosi ebbro per le ferite ma certamente più consapevole nel suo cammino, nella sua avanzata coraggiosa, impervia e spesso ai limiti della resistenza, attraversando e facendosi attraversare: “Era il mare sporco / di Policoro, gli occhi azzurro-verdi, / lo sguardo fisso, gli anticrittogamici / sotto il palato, i Tavor per ovviare / la follia di aver inghiottito zolfo.”. E ancora: “Nessun precipizio è terra d’approdo. / Dura quanto un infarto l’imminenza. / Solo tu senti chi ti parla dentro. / Nessuno è solo. Parlare è invisibile.”.

Tra luci e oscurità si muove l’autore, si divincola tra paradossi esistenziali e geografici apparentemente senza coordinate, dove nello smarrimento sembrerebbe tracciare sentieri d’indizi utili al ritrovamento. La strada non c’era, ma ho cominciato presto a camminare”, come se il passo sembrasse lineare ma procedesse per strappi e alienazioni che non cercano un grembo stabile, un approdo, ma un luogo dove non sostare, dove restare senza appartenere: una Lucania dell’anima: ovvero territorio interiore che pur cadendo in macerie e frantumandosi, mantiene la sua essenza come un pezzo di ghiaccio che torna acqua rimodellando le sue forme ma rispettando perfettamente il mistero della sua natura nel continuo cambiamento, nell’idilliaca complessità. Un diario di bordo il suo, capace di trasfigurare annotazioni in versi che sguazzano nell’inconscio più profondo di un esiliato forse in cerca del suo patto, dei suoi spazi “di sangue e carne”, da sempre emblemi chiaroscuri dell’animo umano.

Immagine di copertina
Finalista Premio Strega Poesia 2025
News Reporter

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