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Nei diversi manuali di letteratura destinati alle scuole superiori poco spazio è occupato dalle scrittrici donne del ‘900 ma un posticino piccolo piccolo è riservato ad una grande autrice, prima vincitrice donna del premio Strega nel 1957 con “L’ Isola di Arturo”. Bene, a questo punto è facile risalire alla sua identità, sto parlando ovviamente di Elsa Morante. La Morante nasce il 18 agosto del 1912, fu moglie di Alberto Moravia, assidua scrittrice, amante del cinema, della radio dunque delle parole come strumento per comunicare la sua storia, le sue storie, vere, verosimili, inventate, rubate, vissute. Peccato che non riuscì a godere del suo successo mentre era in vita forse perché minacciata dalla figura del suo stesso marito, forse perché non fu compresa dai critici e in parte anche dal pubblico che si aspettava qualcosa di meno enigmatico, misterioso. Sì, perché per me questi sono gli aggettivi adatti per descrivere la scrittura della Morante e l’ho capito leggendo sia “L’Isola di Arturo” che “Menzogna e sortilegio” ma anche e soprattutto i suoi racconti brevi che lei cura come se fossero dei veri e propri romanzi ma che in realtà nascondono una intensità che nei romanzi si evince ma in maniera diversa. Tale intensità dei racconti brevi penso sia dovuta proprio alla brevità che caratterizza la stessa storia, lo stesso racconto che deve entrare in un determinato numero di righe, di pagine, di emozioni e di sentimenti senza lasciare nulla in sospeso: le descrizioni sono brevi e concise, le immagini alquanto chiare, i sentimenti dichiarati ma che procurano esperienze inaspettate le quali nascono dalla vicinanza alla dottrina freudiana che viene implicitamente a galla. Vorrei porre alla vostra attenzione un racconto breve in particolare, uno che funge da exemplum rispetto a quanto ho appena detto sopra, un racconto che mi permette anche di mettere in luce altri aspetti dell’autrice stessa. Tale racconto è “Lo scialle andaluso”. È la storia di Giuditta, una donna siciliana che scappa dalla sua isola per inseguire il suo sogno ossia quello di diventare una ballerina di danza classica. Sebbene si tratti di una danza facoltosa, la sua famiglia si oppone a tale mestiere proprio perché poco remunerativo. Giuditta scappa e fa bene perché riesce a conquistare un posto nel corpo di ballo del teatro dell’Opera di Roma. Luogo in cui realizza il suo sogno di ballerina, luogo in cui realizza il suo sogno di diventare moglie sposando un uomo che crede in lei più di quanto lei già non faccia. Dunque, trasferendosi a Roma, bypassa l’ostacolo della sua famiglia senza sapere che da lì a poco avrebbe perso suo marito e che un altro ostacolo si presentava davanti a sé, un ostacolo che lei stessa ha generato ossia suo figlio Andrea. Questi era felicemente in compagnia di sua sorella, tra l’altro gemella, Laura. Entrambi erano molto legati alla loro mamma che oltre ad essere mamma era anche ballerina, dunque io la definirei una mammaballerina. Entrambi, quindi, avevano un ottimo rapporto con la loro mamma ma il rapporto con la ballerina cambiava: se Laura si dimostrava euforica con entrambe le personalità di Giuditta, al contrario, Andrea si mostrava ostile nei confronti di Giuditta ballerina già in tenera età in quanto non accettava che la madre potesse togliere del tempo a lui per dedicarlo al teatro. Giuditta, infatti, non sapeva distinguere i suoi ruoli e molto spesso, avendo la possibilità di scegliere, decideva sempre di far emergere la sua vera natura ossia quella da ballerina. Diversi erano i modi di Andrea di manifestare la sua insofferenza verso il teatro e verso la madreballerina; se da piccolo piangeva e sgattaiolava nella camera materna ogni qual volta sua mamma faceva ritorno dal lavoro, da ragazzino decideva di costruirsi un piccolo carcere in uno sgabuzzino quando Giuditta accoglieva in casa i suoi colleghi. Tale insofferenza era talmente grande tanto da rifiutare di vedere la madre vestita con abiti di scena, tanto da deturpare qualsiasi oggetto o omaggio floreale che la madre aveva ricevuto come segno di riconoscimento della sua bravura. La narratrice, o il narratore (anche se immagino una voce femminile), ci racconta di come Andrea decise di distruggere un bel mezzo di rose rosse e Giuditta, piuttosto che interessarsi al motivo che ha spinto suo figlio a compiere quel gesto, lo accusa definendolo un assassino: in effetti uccidendo quel mazzo di rose, aveva ucciso Giuditta ballerina e non Giuditta madre. Questa scena, a cui la Morante dedica solo due righe, è chiaramente la più emblematica in quanto attraverso questa si capisce che tipo di rapporto ci sia fra i due. È chiaro che la Morante stia accennando al rapporto edipico che è normale fra un* figli* e un genitore di sesso opposto solo che qui Andrea è geloso di Giuditta ma non ha una figura paterna con la quale prendersela, bensì ha un intero mondo ossia il mondo del teatro. La Morante rivisita in una chiave unica il tipico rapporto edipico che ha influenzato quasi tutta la letteratura novecentesca e lo fa facendo morire la figura paterna già all’inizio del racconto e compromettendo il legame madre-figlio con il teatro, luogo e mondo caro alla Morante. Il legame è ormai compromesso: lei perde il suo ruolo di ballerina al Teatro dell’Opera di Roma, l’unica possibilità che le rimane per vivere del suo sogno è quello di diventare una ballerina itinerante e i suoi figli dovranno trovare un’altra sistemazione: Andrea andrà in un seminario in quanto decide di iniziare il percorso sacerdotale e Laura verrà accolta da una vecchia signora.  A parte qualche breve visita di sua madre al seminario, il rapporto fra madre e figlio diventa un rapporto prettamente epistolare. Andrea attende con ansia l’arrivo delle cartoline che sua madre gli invia dai diversi posti in cui alloggia con le sue compagnie e lui risponde, però, sempre allo stesso indirizzo così come avevano pattuito con sua madre. Finché un giorno Andrea non ebbe più notizie di sua madre ma alzando lo sguardo se la ritrova su un cartellone che pubblicizzava un evento teatrale la cui protagonista era Giuditta, ora nota come Febea. Andrea raccolse le informazioni lanciate da quella gigantografia della madreballerina (ora, luogo, data) e senza pensarci due volte scappa dal seminario in cerca, però, di sua madre. Decise che non poteva andare in centro con gli abiti da frate perché lo avrebbero riconosciuto dunque chiede aiuto ad un suo amico che aveva conosciuto durante le lunghe passeggiate nei boschi e indossa i panni di un semplice ragazzo di campagna. Arrivato al teatro, dopo diverse peripezie, riesce a vedere sua madre mentre danzava e addirittura cantava: gli sembrava di assistere ad una vera e propria magia dalla durata tanto fugace quanto un battito di ali perché quello che lui percepiva come applausi, manifestazioni di consenso in realtà erano segni di un pubblico insoddisfatto della rappresentazione teatrale e della stessa Febea ormai sproporzionata fisicamente e priva del talento che lei decantava. Orchestra, pubblico, operatori di scena abbandonano Febea li, da sola, sul palco e questa fugge in maniera disperata verso il suo camerino. Non sapeva che a seguirla c’era proprio suo figlio e che quindi non era sola. Andrea raggiunge sua madre, lei gli va incontro per un lungo e desiderato abbraccio. Andrea si fa cullare da quelle braccia materne e decide di seguire sua madre evitando di ritornare in seminario. L’unico problema era quello di riportare i vestiti che aveva addosso al suo amico, dunque prima di arrivare in hotel, si fermano davanti ad una piccola casina e lasciano lì i vestiti. Ormai nudo, senza gli abiti sacerdotali, senza gli abiti del suo amico, Andrea deve indossare uno scialle andaluso che sua madre portava con sé in quanto era un suo abito di scena. Questa scena è, a mio avviso, la seconda scena più emblematica di tutto il racconto in quanto la Morante porta Andrea ad identificarsi con il mondo del teatro, a lui perennemente ostile, facendolo diventare un personaggio se non il protagonista di tutta la trama teatrale la quale è costituita dal turbolento rapporto con la madre. In effetti Andrea è colui che cambia alquanto frequentemente i suoi abiti: dal saio alle vesti del suo amico fino allo scialle andaluso. Dunque, chi è davvero Andrea? La Morante decide di rispondere a questo interrogativo proprio sul finale del racconto. Arrivati in hotel, Giuditta e Andrea affrontano un discorso circa il loro futuro: Giuditta è disposta ad abbandonare la sua carriera da ballerina e convince il figlio ad abbandonare il suo percorso sacerdotale in modo tale da ricostruire il loro nucleo familiare che include anche Laura. Andrea si lascia persuadere dalle parole della madre e il mattino seguente indossa un altro abito stavolta un abito cucito a mano e su misura per lui. Sarà l’abito con il quale Giuditta lo identificherà come Uomo. Si ricostruisce il nucleo familiare, tutti e tre ritornano a Roma nella speranza di riprendere la vita dallo stesso punto in cui lo avevano lasciato. Ma riprendere ciò che è stato interrotto è impossibile sebbene la vita venga concepita come una rappresentazione teatrale in cui è facile passare di atto in atto, di scena in scena. E questa impossibilità è data dalla scarsa volontà da parte di Andrea di ricostruire ciò che era perché arriva a capire come la volontà della madre di ricostruire il passato è data dall’impossibilità di inseguire il suo sogno. Giuditta non scelse Andrea, fu costretta a scegliere Andrea perché non aveva altre alternative. Andrea dunque è, alla fine così come all’inizio del racconto, un bambino vittima di una madre che madre non è. La grandezza della Morante consiste nell’aver messo su carta un rapporto edipico nuovo, differente ma allo stesso tempo intenso in cui a mettere in crisi il legame madre-figlio è il teatro che viene visto come luogo di illusione, come luogo “esotico” in cui l’esotico non è da intendersi in relazione ad un luogo fisico alquanto lontano bensì è da intendersi in quanto luogo psichico lontano che si origina da restrizioni, obblighi da rispettare, ambienti familiari “dittatoriali”, insoddisfazioni personali e sociali. Questo luogo esotico è il luogo in cui i personaggi estremizzano e radicalizzano i loro comportamenti, i loro atteggiamenti tanto da diventare non quello che in realtà volevano o pensavano di essere ma proprio l’opposto ossia ciò che non erano e che mai sarebbero stati se avessero vissuto senza censure, restrizioni, obblighi da eseguire e rispettare. Questo luogo è il teatro, luogo per la Morante di illusione e dolore, di speranza e di sofferenza, di sogni e di incubi. Ed è proprio questo il teatro per Giuditta, protagonista de “Lo scialle andaluso” : un’ illusione.

News Reporter
Sono una semplice studentessa universitaria che ha l'ambizione di far capire come la letteratura sia in noi e con noi tutti i giorni, così come lo sono la biologia, la fisica, la matematica. Sono una sognatrice e, forse, per questo credo di riuscire nel mio intento.

1 thought on ““Lo scialle andaluso” di Elsa Morante.

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