Un uomo (Alessandro Mor) è al telefono in una sala di attesa di un centro di analisi. Sedie rosse, un numero, anch’esso rosso, sul tabellone: numero che non cambia mai. L’ambiente è scuro, freddo. A terra delle linee colorate guidano i pazienti nei vari percorsi di cura. L’uomo sembra calmo, quasi a suo agio in un luogo che già conosce. Al telefono però suggerisce a qualcuno un esercizio per controllare l’ansia: chiudere gli occhi e provare a ricordare i dettagli della sala di attesa. Ecco che in questo spazio immaginato, come un’apparizione, entra un ragazzo (Gabriele Graham Gasco). L’uomo riapre gli occhi, lo scruta, entrano in relazione in quell’ambiente angusto.
Inizia così Acanto in scena al Teatro India di Roma. Fin qui non sappiamo nulla dei due, anche perché la scrittura di Nicola Russo, autore del testo e regista, è una scrittura per sottrazione e molto simbolica, che ci trasporta immediatamente, sin dal momento dell’incontro, in mondi distanti ma uniti dalla medesima tensione emotiva.
“Come vorresti che fosse questo luogo?” chiede uno all’altro. Una domanda lanciata per rompere il ghiaccio, che apre la strada a un viaggio tra le vite dei due protagonisti. Il testo è costruito con abilità sui non detti. Intuiamo che entrambi sono nella sala di attesa per qualcosa di importante; ci sono accenni alle prime analisi di cui si aspettano i risultati con tormento, la calma dell’uomo e l’estremo nervosismo del ragazzo ci fanno scoprire a poco a poco che si tratta di Hiv, di un primo responso per il ragazzo e di un controllo di routine per l’uomo.
Acanto tratta certamente il tema dell’Hiv e la sua eredità pesante – e lo fa in modo intelligente senza scadere in vittimismi e sensi di colpa, ma superando lo stigma che ancora oggi grava sull’argomento – ma è soprattutto il racconto dell’incontro di due individui attraverso i luoghi dell’eros e delle rispettive prime volte. L’uomo racconta le avventure notturne nei parchi alla ricerca della bellezza e della poesia anche dove sembra non annidarsi, e non solo di meri rapporti sessuali; il ragazzo si confronta invece sull’apparente facilità e immediatezza degli incontri tramite le nuove applicazioni. Il dialogo tra i due protagonisti diventa sempre più intimo e la bravura degli attori, molto convincenti, porta il pubblico nelle vite di entrambi. Vediamo i luoghi raccontati, le esperienze condivise, anche quando il linguaggio usato è molto simbolico, con quella sottrazione cui accennavamo prima, e che a tratti richiede un’attenzione costante pena il rischio di perdersi qualche battuta.
I passaggi più delicati del racconto, quando la perdita di innocenza viene evocata nei ricordi dell’uomo e confessata dal ragazzo, rappresentano lo specchio in cui entrambi ricercano sé stessi. Forse i due personaggi sono la stessa persona e l’uomo adulto ripercorre le sue prime esperienze di amore e di sesso facendo parlare l’alter ego, il ragazzo smarrito in un ospedale in attesa di un responso medico. Colpisce anche la scelta di focalizzare il punto di vista narrativo sull’uomo adulto. È il primo attore che vediamo in scena, il ragazzo appare dal nulla in un secondo momento e l’uomo sembra guidare la conversazione lungo un sentiero che conosce bene.
Acanto non è solo il dialogo tra due individui che condividono i propri luoghi dell’intimità, ma anche la narrazione dei corpi, un corpo giovane e un corpo maturo che costruiscono una nuova geografia dei sentimenti.
Alcune battute dei protagonisti sono accompagnate da video proiettati sul tabellone. Una scelta che ci è sembrata superflua, dato che non aggiunge nulla all’intensità del testo ben scritto, anzi il rischio è quello di perdere la concentrazione sulle battute sempre corpose e pungenti, come le foglie di acanto.
Acanto
testo e regia Nicola Russo
con Alessandro Mor e Gabriele Graham Gasco
scene e costumi Giovanni De Francesco
luci Giacomo Marettelli Priorelli
suono Andrea Cocco
video Matteo Tora Cellini
assistente alla regia Isabella Saliceti
foto di scena Giovanni De Francesco
produzione MONSTERA
in collaborazione con Alchemico Tre

