Montale l’uomo ‘spaiato’ – Di Xenia e degli anni da vedovo

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Sotto al nome di Xenia (I e II) vanno due le sezioni che fanno da anticamera a Satura, raccolta che Montale pubblica nel 1971, dopo anni di silenzio poetico.
Le sezioni (composte tra il 64 e il 66 la prima e fra il 66 e il 67 la seconda) ospitano rispettivamente quattordici testi, per un totale di ventotto. Testi acuminati e per lo più brevi che, anche se Montale si fa beffe della critica negandolo spudoratamente, finiscono per organizzarsi in una struttura coerente e ben consapevole di sé.
Quella di un canzoniere d’amore la cui destinataria è Drusilla Tanzi. Compagna di una vita e da poco moglie ufficiale di Montale. Che, «caro piccolo insetto» quel matrimonio che ha atteso per una vita, ha avuto appena il tempo di goderselo.
Perché nell’ottobre del ‘63 (precisamente un anno e tre mesi dopo) Drusilla è morta. E Montale non se ne fa una ragione. Non può farsene una, dopo aver sceso insieme a lei il «milione di scale» di un amore che non sapeva stare al mondo, ma che per quasi trent’anni ha continuato a provarci.

E Xenia, questo «piccolo canzoniere funebre», come lo chiama Bongiorno, racconta proprio questo.
Il vuoto. Il vuoto atroce e inconsolabile di quelli che restano. Quelli a cui la forza dell’abitudine fa continuare ad apparecchiare per due. Quelli che sono stati abituati a pensarsi per una vita come i ‘compagni di’ e che da un certo punto in poi non sanno più come pensarsi. Li consolerebbe, forse, sapere che Montale ha inventato una parola anche per questo. Non i ‘vedovi’, troppo straniante e impersonale per contenere la loro sofferenza, ma bensì gli ‘spaiati’. Così si definisce in una delle poesie più toccanti della raccolta. ‘Spaiato’. Come se fosse un calzino. O uno qualsiasi di quegli oggetti che sono due, ma sono stati concepiti per essere uno («Eppure non mi dà riposo | sapere che in uno o in due noi siamo una sola cosa» I, 14).

Montale e Drusilla – Un amore che non sapeva stare al mondo

Al Saint James di Parigi dovrò chiedere
una camera ‘singola’. (Non amano
i clienti spaiati). E così pure
nella falsa Bisanzio del tuo albergo
veneziano; per poi cercare subito
lo sgabuzzino delle telefoniste,
le tue amiche di sempre; e ripartire,
esaurita la carica meccanica,
il desiderio di riaverti, fosse
pure in uno solo gesto o un’abitudine.
(Xenia I, 3)

Drusilla (per gli amici Mosca, per via degli spessi occhiali cui la costringe l’importante miopia) nasce il 5 aprile dell’85 da una famiglia di quella che oggi definiremmo la ‘Milano bene’. All’età di venticinque anni sposa il critico d’arte Matteo Marangoni, da cui avrà un figlio (Andrea).
Nota per il suo temperamento arguto e per il suo acume irriverente, Drusilla è una lettrice avida e una studiosa appassionata. Ed è anche una «Sveviana accanita», come veniamo a sapere dal biglietto che Montale indirizza a Italo Svevo, subito dopo averla conosciuta:

Ho conosciuto (…) una simpatica e intelligente sua ammiratrice (…) porta il bizzarro nome di Drusilla. Le ripeto che è una Sveviana accanita devota e intelligente, e perciò amica mia.
(Eugenio Montale a Italo Svevo, 20 giugno 1927)

Anche se le fonti tacciono al riguardo, l’attrazione e la curiosità reciproche devono essere state immediate. Fatto sta che, pochi mesi, dopo Montale va a stare a casa sua e di suo marito come ospite pagante.
Dodici anni dopo, nel 1939, ha inizio la loro convivenza ufficiale in Via Duca di Genova. Convivenza non facile che solo nel 1962 si risolve finalmente in un’unione religiosa (seguita qualche tempo dopo da quella civile).
Ma perché si parla di una convivenza non facile? Per una semplice ragione. E cioè per il fatto che la continuità più che ventennale del loro legame non è mai riuscita a farsi garanzia della serena stabilità che di norma caratterizza le coppie longeve.

Questo perché Montale, ammettiamolo, non è proprio quello che si può definire un santo. A meno che i santi non si innamorino di continuo, come succede a lui.
A cui per innamorarsi basta davvero poco, pochissimo (a volte una semplice foto, come dimostra il caso eclatante di Dora Markus, di cui Montale si ‘innamorò’ vedendo una foto delle gambe).
Dunque, Montale, come tutte le persone che amano a prima vista, è un uomo tradisce al primo sguardo. Non è chiaro, e nemmeno poi così rilevante, stabilire quante volte ciò accada solo nei pensieri e quante si concretizzi invece anche nei fatti.

Fatto sta che Drusilla sa, ma, come succede spesso in casi del genere, fa finta di non sapere. Fino a che, nel ’33, non fa la sua apparizione lei. Irma Brandeis. La magnetica, la sensuale, la fatale italianista americana con cui Montale intraprende una travolgente (e per noi oscura) relazione che lascerà il segno su buona parte della sua produzione poetica (Dove Irma compare col senhal di Clizia).

Per lei, per miss. Brandeis, Montale si dice addirittura pronto a lasciare tutto per trasferirsi in America, dove dopo poco la donna fa ritorno nella speranza di essere presto raggiunta.
Ma la sua, nonostante Montale si spertichi in promesse e rassicurazioni epistolari, è una speranza vana, che non avrà altra scelta che gocciolare via piano fino a prosciugarsi del tutto.

Montale e la sua Itaca: tutti gli avventurieri ne hanno una

Dalla lettera che Montale invia a Irma Brandeis il 7 gennaio del 1935 veniamo a sapere che l’unica cosa che ne ostacola la partenza è una donna. Donna che non ci è difficile identificare con Drusilla, sua compagna ufficiale del tempo cui l’uomo (con molto poco pathos) si riferisce come ad ‘X.’

Da quanto si legge, X. minaccia addirittura di uccidersi, se lui partirà. È sempre lei, ovviamente, la «donna isterica» cui fa riferimento miss. Brandeis, nella missiva di risposta, scritta il 21 febbraio del ’35 (e mai inviata). Parlando di Drusilla nei termini molto poco solidali di una donna egoista, psicotica e colpevole di tenere «in scacco finché vive» la vita di due persone.

Come se Montale non fosse un uomo adulto che è libero di fare le sue scelte. Cosa che ovviamente è, anche usa Drusilla come alibi per far credere il contrario.
Perché l’uomo, nel concreto, non fa nulla per liberarsi da una condizione di «acquiescente schiavitù» di cui non fa che lamentarsi, ma da cui (visto che continua a insistervi da anni) trae evidentemente anche dei vantaggi.
Uno di sicuro.
E cioè la sensazione di sicurezza e stabilità che, anche ai più avventurieri, deriva dal poter fare completo affidamento sull’esistenza (e sulla persistenza) della loro Itaca. Perché tutti, soprattutto se avventurieri, ne hanno una.

Tutti hanno qualcosa (o qualcuno) che li aspetta e che, qualunque cosa facciano, è e sarà sempre pronta ad accoglierli con amore. E nel caso di Montale si tratta di lei. Di Drusilla. Del «cane fedele e incimurrito» (I, 5) che, come Argo con Ulisse, lo aspetta sulla porta di casa nella speranza che le traiettorie casuali della sua infedeltà cessino una volta per tutte.

Drusilla. La donna così presente da essersi resa invisibile. Così devota da essere non solo data per scontata, ma da essere addirittura considerata eterna («La morte non ti riguardava» II, 1). È questa la ragione per cui Montale (prima che lei muoia) scrive di tutte le donne che incontra, tranne che di lei.

Di Drusilla, non è un caso, scriverà solo nel 1944, quando viene ricoverata d’urgenza a causa della tubercolosi ossea che ha già iniziato a divorarla viva (Ballata scritta in una clinica). Poi più nulla. Tuttavia, anche se Montale, scampato il pericolo, si è dimenticato della morte, la morte non si è dimenticata di Drusilla.
Così, nel 1963, venti anni dopo, viene a prendersela. Portandosi via anche la terra su cui si regge l’intera esistenza dell’uomo («è il vuoto a ogni gradino» II, 5). Il quale, abituato com’era a fare affidamento sull’onnipresenza di lei, si ritrova d’improvviso a interfacciarsi col fantasma di una donna assente e irraggiungibile.

Una donna, con Bongiorno, finalmente degna di realizzare il proprio ingresso «nel Pantheon poetico delle figure femminili montaliane», tutte donne irraggiungibili e assenti a modo loro.
Ingresso, il suo, reso ancora più eclatante dal fatto che Montale aveva smesso di scrivere da quasi dieci anni. È proprio la morte improvvisa della moglie, per sua diretta ammissione, a dargli la «spinta» che, quasi senza accorgersene, lo fa ricadere nella spirale del ‘vizio’ tanto demonizzato:

Nel 1963 ci fu la morte di mia moglie. Mi venne la spinta a scrivere qualche ricordo di lei. Sono i versi di Xenia. Così ho ripreso, come uno che abbia smesso di fumare e, a un certo punto, dopo qualche anno, un amico gli offre una sigaretta e lui ricomincia.
(da un’intervista di Baldini a Montale del 1971)

Montale l’uomo ‘spaiato’ – Di Xenia e dei giorni dell’assenza

Xenia. Già solo il titolo meriterebbe una trattazione a parte. Ma che cos’è uno xènion? Cosa sono gli Xènia?
Sono i doni e gli epigrammi votivi che, nella poesia classica, si usava offrire agli amici che se ne andavano per un lungo viaggio.
Viaggio ultramondano, nel caso della non poi così amica Drusilla («il tuo lungo viaggio | imprigionata tra le bende e i gessi» I, 14 ) che stavolta se ne è andata per sempre.

Così Montale, al modo degli antichi, le fa un dono. Quello di una raccolta di poesie che la vede protagonista e, forse per la prima volta, oggetto esclusivo di tutte le sue attenzioni.
Perché l’uomo, convinto che la morte riguardasse tutti tranne la sua paziente, la sua devota Mosca, scopre di colpo che invece la riguarda («ti riguardava» II, 1).

Perché per quanto la silenziosa, la saggia, la sagace Mosca si librasse con le sue ali iridescenti di piccolo insetto sopra alle «cancrene universali» (II, 1), era umana anche anch’essa, anche se Montale non lo vedeva. Lo vede adesso. Come pure vede l’immenso valore della donna che, senza essere vista, gli è stata accanto per così tanti anni, senza chiedere nulla.

Così, morta Drusilla, la realtà, depauperata di ogni significato, si riduce d’un tratto alla brutta copia di ciò che era. «Un niente» che pure è stato un tutto» (II, 13) e che qualunque cosa l’uomo faccia non potrà mai più tornare ad essere ciò che era prima.

Così, ovunque lui vada, qualunque cosa faccia, Montale non può fare altro che trovare e cercare conferma all’assenza di lei («Non ti sentirò più lottare col rigurgito | del tempo, dei fantasmi, dei problemi logistici | dell’estate» I, 12) .

La trova nei gesti abitudinari di sempre che, da rassicuranti, diventano parte di una liturgia vuota e straniante. («Mi abituerò a sentirti o a decifrarti | nel ticchettio della telescrivente, | nel volubile fumo dei miei sigari | di Brissago» I, 8 ).

La trova nel ricatto delle cianfrusaglie e negli sguardi di fotografie che solo in parte riescono a colmare una casa divenuta da un giorno all’altro una casa vuota («la bimba scarruffata che mi guarda | ‘in posa’ nell’ovale di un ritratto»). E  la trova persino in società.

Quella società nel cui «blabla» Montale, forse per deformazione professionale, sguazzava con maestria invidiabile. A differenza di lei. Che, nonostante le sue pupille offuscate, era dotata di un «radar di pipistello» che le permetteva di penetrare il velo delle apparenze e di smascherare i «furbi» convinti che fosse lei il loro zimbello, invece del contrario.

E forse, in fondo, tutto finisce per essere racchiuso nel titolo della raccolta. Una raccolta che vuole essere un dono ma che, per paradosso, finisce col farsi un inventario dei doni che la donna ha lasciato a lui.

E Montale, quel dongiovanni pentito che non è altro, li raccoglie uno ad uno, li stringe, ne scrive e in essi trova la forza di andare avanti.

Perché, in qualche modo, bisogna sempre farlo.

News Reporter
Umanista visionaria e confusionaria, amo i libri e detesto le autobiografie. Amante del bello che si nasconde sotto le siepi, come lo chiamava Wordsworth, sono visceralmente convinta del fatto che la letteratura possa salvare la vita. Con la mia ha funzionato.
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