Sharing is caring!

In letteratura ci sono simpatie, antipatie e scelte fatte dalla persona/artista che condizionano il fatto che sia più o meno letto, che sia più o meno dato valore al merito della sua creazione. Nello specifico di Ezra Pound, non manca chi afferma che questo poeta sia uno dei classici più moderni, che nella sua opera scrive nuovamente opere come quelle di Omero, Cavalcanti, Dante, Shakespeare, Geoffrey Chaucer e Confucio. Nonostante questo, non ha potuto evitare che fra i suoi contemporanei sia stato il meno favorito da commenti di elogio e dalla critica. Al contrario, nessuno è stato più vilipendiato dai fattori conservativi di quella o dell’altra avanguardia. Sicuramente l’opera di Pound è stata oggetto di pregiudizi e continua ad essere meno considerata di quanto meriterebbe (la grandezza della sua opera letteraria è stata oscurata dalle sue simpatie politiche). Perfino Harold Bloom, un critico bravo ma poco imparziale, gli dedica solo un breve spazio nel suo discutibile “canone”. Comunque, credo che Pound abbia cercato, con audacia, di fare ritornare alla poesia la sua essenzialità onnicomprensiva, attraverso un culto all’arte che non esclude nulla e pretende dire tutto. Certamente, facendo uso di una scrittura elaborata, dove nonostante l’azzardo e l’automatismo psichico siano stati liberati, il contenuto e la forma della sua opera sono un esempio di concentrazione e digressione poetica. La sua linea poetica appare come un parente stretto di quella dei surrealisti, e anche se segue un percorso già tracciato, non evita che a volte perda il cammino. Questo comporta che i lettori gli richiedano maggiore purezza. Credo però, che sia in questo “perdersi” uno dei suoi incantesimi e fascino, perché Pound è un artista che va per un sentiero diverso rispetto a tutti gli altri. Nella sua magnifica opera “I CANTOS” il poeta stabilisce una sua continuità spaziale e tematica, facendo dei balzi nell’immenso vuoto che può aprirsi fra la storia e lo spirito dell’arte. Il suo modo di rappresentare l’arte è una mostra del vivere dell’uomo alla ricerca di un ordine per il suo caos. L’opera compie un viaggio che inizia dall’antichità e passa per il millenario Oriente e per il Rinascimento, fino a navigare sulle acque che meglio rappresentano l’attualità, il potere del denaro, i limiti del progresso, l’ipocrisia morale e religiosa, i disastri della guerra (disastri non solo fisici ma anche nell’anima umana), l’incertezza delle masse (che diventano un attore cieco o una sorta di ciclope quando si tratta del dominio dei potenti sugli indifesi), l’ironia. Pound sembrava dirci, fra i tanti propositi convergenti, nel suo poema, che mentre più conoscenze si hanno, più barbari siamo e che solo un mandala poetico orbitante pagina dopo pagina ne I CANTOS stesso, poteva rivivere le impressioni e le visioni di un diligente scribacchino.

Logicamente, queste sono delle considerazioni di un’umile lettrice e consumatrice dei versi di uno dei più grandi poeti, critici e saggisti del Novecento.

Un grande poeta che raramente capiamo. Ma cercare di decifrarlo è provare un frutto in cui si assapora la conoscenza. Attraverso la sua opera entriamo in contatto con un vasto mondo dove tutto finisce nell’incommensurabile possibilità della poesia di trascendere la dualità. In Pound, il critico non può essere separato dal poeta. TS Eliot ha scritto: “Quello che Pound ha enunciato sull’arte di scrivere e in particolare sull’arte di poetizzare, è prezioso e proficuo in un certo senso”. Questo, già notato da altri, disse sapendo che senza il pastello rosso di Pound la sua “Wasteland” non sarebbe stata la poesia che leggiamo oggi. Frequentando la critica di Pound, non è difficile cogliere che si tratta della scrittura di chi si è esercitato a parlare a un pubblico vasto e colto che lo ascolta attento e con il necessario disaccordo, un pubblico che incita al consenso e alla replica, in ogni caso, per dotarsi di un punto di vista veramente critico, non per rimanere nella mera superficialità “dell’aneddotica o dell’informativa”. Il suo apporto poetico è uno dei rami dell’albero che apprezziamo e attraverso il quale solitamente ‘entriamo’ nella sua esigente lettura: il Pound che ci insegna come critico impenitente, come poeta scomodo. Penso che il suo approccio poetico sia un connubio di opinioni fluide e spesso dense, ma con l’impronta del ‘discusso’. Sebbene le sue argomentazioni, quasi sempre convincenti, ci sembrino quelle di un fisco, sono prepotentemente valide e ci permettono di continuare ad aprire solchi sulla mappa della poesia, mappa del mistero.

Ezra Pound con la sua scrittura registra un’alta variabilità di toni in contrasto e armonia, con un ritmo proprio interiore, con una musicalità che ci fa tenere presente l’arte della fuga o il contrappunto di Bach. La sua musicalità, ottenuta a partire da allitterazioni, inusitati e accostamenti di immagini insolite fa sì che il suo lirismo attraversi il filo del tempo.

Vi riporto una sua poesia in cui si può tracciare un punto di unione e separazione con W. Whitman.

“Stringo un patto con te, Walt Whitman:

ti ho detestato ormai per troppo tempo,

vengo a te come un figlio cresciuto

che ha avuto un padre dalla testa dura.

Ora sono abbastanza grande per fare amicizia.

Fosti tu ad abbattere il nuovo legno,

ora è tempo d’intagliarlo.

Abbiamo un solo fusto e una sola radice:

ristabiliamo commercio tra noi”.

Ezra Pound

Pound scrisse in una lingua senza frontiere, dove si accostano lingue diverse, simboli, segni, scritture di diversa provenienza culturali. Il suo dire è un ampolloso e intricato inventario, con una visione molto ma molto personale, dove la colluttazione verbale attraversa i paradigmi della tradizione e della modernità, ricorrendo alla intertestualità e depersonalizzazione del suo “Io” poetico, attraverso un’espressione che lo avvicina alla “lingua della tribù” “A lume spento” (1908) e “Personae” (1909), i suoi libri iniziali gli sono serviti come preparazione per “I CANTOS ” , la sua maggiore opera, una delle più significative fra le due guerre. Si dice che iniziò a scrivere I CANTOS nel 1915 e che all’inizio pensasse di metterci almeno 50 anni. Questo suo capolavoro rappresenta un sistema poetico denso, composto da diverse forme espressive: reportage, conversazioni, esposizione teorica, commento storico e mostra di innegabile ingegno immaginativo. Leggendola, arriva la sensazione che i rami di un albero incominciano a espandersi in tutte le direzioni, alcuni sembrano addirittura forzati, ma sono lì per intessere dei legami con una visione di ampia portata. A volte si ha l’impressione che tale pretesa sia un bizzarro mosaico di oscurità e vanità letteraria. Nonostante, gli spazi che vanno man mano coprendo i rami (parole-immagini) ci riportano alla totalità evocativa a cui aspirano I CANTOS e che dietro alla penna si trova il frutto di un poeta unico, che è a sua volta somma di tanti altri, a chi in certi passaggi migliora o peggiora, con la squisita padronanza di chi in verità sta traducendo se stesso, in tutte le persone che impersona.

di Yuleisy Cruz Lezcano

News Reporter
Follow by Email
Instagram