2° classificato per la sezione di poesia edita al Premio Nabokov 2024

Immergersi tra le pagine di “Nei cieli di Odessa” di Marcello Tagliente è un po’ come vagare in silenzio tra ciò che resta di una città che non smette di sperare. Più che una semplice antologia poetica, è un sospiro interrotto, un lamento soffocato, una supplica bisbigliata con gli occhi chiusi tra i resti del passato. Tuttavia, anche in tanta afflizione, risplende una luce caparbia, quella che solo la poesia sa accendere quando ogni cosa pare ormai perduta. La cadenza dei versi di Tagliente non è mai artificiosa né forzata. Fluisce lenta, quasi come un passo esitante tra le barricate della sofferenza, ma con una musicalità profonda, quasi domestica. A tratti pare di udire una vecchia storia accanto al focolare, altre volte un diario personale sussurrato nel buio. Le frasi si distendono, si avviluppano, si replicano su sé stesse come se andassero in cerca di un senso tra le pieghe del silenzio. Ed è proprio il silenzio – “solo il silenzio ha un nome”, scrive – che diviene il vero fulcro di queste pagine: non una vacuità, bensì uno spazio gravido di mancanze, di esistenze stroncate, di giuramenti disattesi. L’espressione è basilare, per nulla ampollosa, eppure pregna di figure: ciliegi che sbocciano tra le esplosioni, conchiglie di Crimea adagiate accanto a croci di legno, gatti grigi che vegliano sui sogni, bambole di stoffa strette al cuore come ultimi portafortuna. Tagliente non narra la guerra in modo esplicito; la trasmette attraverso il palpito di un cuore che sussulta, attraverso le mani di una nonna che prepara torte per una ricorrenza che non ci sarà mai, attraverso lo sguardo di una fanciulla che non rammenta più dove sia la sua casa. È una poesia vissuta, fatta di corpi, di aromi, di gesti comuni sconvolti dalla brutalità. E poi ci sono gli accenni — delicati, ma intensi. Victoria Amelina, la scrittrice ucraina deceduta per via di un missile russo, è rammentata più volte.
Silvia
