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Nell’opera Lo cunto de li cunti è perfettamente descritto il modello di un genere letterario che sarà poi molto diffuso in tutti i paesi europei: il racconto fiabesco. Esso rappresentava quella tipologia narrativa nella quale è rintracciabile, secondo lo studioso Michele Rak, la minima distanza che intercorre tra lo straordinario e l’usuale. Ciò vuol dire che la caratteristica essenziale della fiaba consiste nel narrare vicende fuori dall’ordinario, così come erano fuori dall’ordinario le coordinate spaziali e temporali di questo genere, le quali erano volutamente irriconoscibili. Allo stesso modo era necessario che anche i protagonisti di tali racconti fossero personaggi dalle abilità straordinarie o provenienti da mondi diversi dal nostro. Tali racconti erano il luogo di confronto con il regno del fantastico e del meraviglioso. Tutti questi elementi andavano a fondersi per creare una tipologia d’intrattenimento che aveva come primo obiettivo quello di generare il riso ai loro ascoltatori, membri illustri degli ambienti napoletani di corte. La costante che svolge questo ruolo è la rappresentazione del “diverso” e del “grottesco”, messa in evidenza in particolar modo dai vari protagonisti che si susseguono nelle cinquanta fiabe dell’opera di Giovan Battista Basile. Questi personaggi trovano il loro spazio di azione nel racconto fiabesco, all’interno del quale essi convivono con i “normali” senza differenze e con incerti confini.

L’opera ha come punto di avvio la vicenda della principessa Zoza e del principe Tadeo, narrata durante l’Apertura. All’interno di questa storia vengono raccontate tutte le restanti quarantanove, con un intervallo di dieci racconti al giorno per una durata totale di cinque giorni. Ogni racconto aveva la medesima struttura narrativa, si apriva infatti con una sequenza proverbiale ed era chiuso da un proverbio. Le tematiche affrontate erano ricorrenti e ciò valeva anche per i personaggi, re, principesse, orchi, fate, maghi e altre straordinarie creature, rendendo l’opera un insieme compatto in cui l’impressione che sia ha è quella, come definito ancora una volta da Michele Rak, di una storia che viene ripetuta per cinquanta volta con un raffinato lavoro di articolazione.

Il Cunto è un’opera realizzata attraverso l’utilizzo della lingua napoletana, condita al suo interno dal risultato di un intenso lavoro di ricerca da parte dell’autore sui modi di dire dell’area campana e sui testi e modelli del teatro popolare, il quale veniva recitato nelle strade e nelle piazze. Le tematiche affrontate hanno le loro origini da un basso strato artistico, ma i testi vengono adattati per il pubblico al quale sono rivolti, attraverso l’utilizzo di numerose figure retoriche e citazioni colte. La scelta artistica è dunque ben motivata, specialmente se consideriamo lo scopo che ha spinto Basile a dedicarsi attivamente a questo progetto, un vero e proprio passatempo cortigiano, celebrato nel momento rituale del dopopranzo, durante il quale gli uomini di corte si dedicavano a svariati divertimenti.

La prima ambizione dell’autore del Cunto era quella di scaturire le risate del suo pubblico di cortigiani. Il riso era una proprietà intoccabile in possesso di questi importanti personaggi ed esso poteva essere provocato unicamente da tematiche e figure da loro discostanti, rispetto alle quali non potevano in alcun modo identificarsi. A divertire gli uomini e le donne di corte, infatti, erano la goffaggine e le disavventure degli impotenti, figure messe al centro di racconti dove le regole della realtà vengono sovvertite.

Tale stravolgimento della realtà nasce dal desiderio di rottura rispetto ai vecchi schemi culturali, intenzione che contraddistingue la visione artistica tipica del Barocco. L’irrequieta visione del mondo che caratterizza questo filone artistico viene coniugata alla perfezione all’interno del sistema narrativo del Cunto. L’universo fiabesco è il luogo in cui la realtà abbandona la propria fisionomia immobile, facendo in modo che le cose appaiano sempre diverse e inafferrabili, perdendo la loro consueta rigidità e stabilità, caratteristiche le quali vengono totalmente meno nei racconti di Basile. Il Barocco e la cultura che da esso ne deriva rappresenta il punto di partenza per questa operazione di metamorofosi della realtà, per la cui rappresentazione l’autore adotta il genere letterario maggiormente adeguato allo scopo, quello della fiaba.

Nel Pentamerone di Giovan Battista Basile, vengono passate in rassegna diverse figure dai tratti mostruosi e lontani dai canoni di bellezza imposti dall’ambiente di corte seicentesco. Le stesse narratrici interne, le quali hanno l’arduo compito di dilettare la corte del principe Tadeo con i loro racconti, sono donne dall’aspetto ripugnante, ciascuna in possesso di una diversa caratteristica estetica che la rende un personaggio differente rispetto a quelli che compongono l’ambiente ad esse circostante. Strabismo, zoppia, deformazioni ossee, sono solo alcune delle menomazioni possedute da queste narratrici, il cui aspetto stravagante è conforme ai canoni estetici dell’universo fiabesco. La loro storie fungono da coesione tra la cornice narrativa e i restanti quarantanove racconti, all’interno dei quali possiamo imbatterci di continuo in figure appartenenti all’universo del fantastico, come ad esempio orchi, fate, maghi e stregoni, le quali, attraverso le loro azioni, fungono da motore di avvio degli eventi fiabeschi.

Il continuo confronto con il “diverso” è una diretta conseguenza di quel tentativo da parte dell’autore del Cunto di percorrere in tutti i sensi possibili le molteplici strade del reale, perfino andando oltre la realtà stessa, alla ricerca di un mondo che possa riflettere i propri ideali artistici. Non è solamente il possesso di poteri magici a contraddistinguere questo tipo figure distanti dal reale, ma in ciò svolgono il loro ruolo anche attributi fisici e mentali, i quali caratterizzano questi personaggi rendendoli “diversi” rispetto a tutto ciò che li circonda.

La figura dello stolto, dello stupido, del sarchiapone, è ricorrente nei racconti di Basile. All’interno dell’universo narrativo della fiaba la descrizione di personaggi sempliciotti e ignoranti e del loro totale capovolgimento di situazione nel finale del racconto, rispetto a una condizione iniziale totalmente diversa, è un espediente utilizzato in maniera ricorrente dall’autore del Cunto. Essi infatti vengono spesso collocati in un contesto sociale di basso livello, a causa delle condizioni economiche o dello status sociale delle famiglie alle quali appartengono. Questi personaggi sono etichettati come dei “diversi”, delle figure da emarginare socialmente a causa della loro inutilità nello svolgere una qualsiasi azione pratica. L’espediente narrativo applicato al termine di ogni Cunto è quello di un vantaggioso mutamento di condizione del protagonista. Come stabilito da Michele Rak, il punto di partenza di questo mutamento favorevole è spesso volutamente molto basso, e lo stesso principio vale anche per gli sciocchi protagonisti delle fiabe del Cunto. Nel loro caso, inoltre, a rimarcare ancor di più questa condizione d’inferiorità è il fatto che queste figure non possiedono adeguate capacità intellettive e cognitive, caratteristiche alle quali si unisce in molti casi anche uno scarso spirito d’intraprendenza.

Sono molte le fiabe che hanno nel loro incipit una rapida presentazione di questa tipologia di personaggio, come ad esempio quello di Carluccio, figlio del re di Castelchiuso, protagonista di Sapia (V. 6).

«Era na vota lo re de Castiello Chiuso, c’aveva no figlio così capotuosto che no ‘nce era remmedio che bolesse tenere a mente l’abcd, e, sempre che se le parlava de leiere e de ‘mparare, faceva cose de fuoco, che non iovavano strille nè mazziate nè menaccie»

Carluccio, tuttavia, rappresenta l’unico caso del Pentamerone in cui la figura dello stolto oltrepassa le barriere della propria ignoranza. A essere decisivo è l’intervento di Sapia, figlia di una potente baronessa, le quali virtuose qualità consentiranno al giovane di ricevere un’ottima istruzione. In un primo momento, tuttavia, la riottosità di Carluccio si rivela essere esasperante per Sapia, che reagirà dando uno schiaffo al suo studente. Tale gesto si rivelerà, però, essere sorprendentemente producente. Il principe infatti, grazie a una reazione di orgoglio in risposta all’offesa subita, si impegnerà nello studio a tal punto da diventare il più sapiente del regno e, contemporaneamente a ciò, inizia a covare un odio sempre più profondo nei confronti di Sapia, a causa dello schiaffo da lei ricevuto. Carluccio decide quindi di mettere in atto la propria vendetta chiedendo in sposa la baronessina, al solo scopo di renderle la vita un inferno. Nonstante ciò, al termine del racconto Sapia si rivelerà essere più astuta del rivale, riuscendo a restare incinta di lui attraverso l’inganno e costringendolo a rispettarla come moglie e come madre dei propri figli. Carluccio riesce finalmente a comprendere il significato delle parole che Sapia gli aveva rivolto nella parte centrale del racconto: «chi te vole bene te fa chiagnere e chi te vole male te fa ridere» La fiaba, inoltre, dimostra come il possesso di un grande bagaglio enciclopedico non sia necessario per condurre una vita onesta se ad esso non viene accompagnata una rettitudine d’animo che possa guidare il proprio senso morale.

Ben differente è la figura di Peruonto, protagonista dell’omonima fiaba (I. 3), all’inizio della quale vengono passate in rassegna le caratteristiche del personaggio principale.

«… era lo chiù scuro cuorpo, lo chiù granne sarchiopo e lo chiù solenne sarchiapone c’avesse creiato la Natura. Pe la quale cosa la scura mamma ne steva co lo core chiù nigro de na mappina e iastemmava mille vote lo iuorno chillo denucchio che spaparanzaie la porta a sto scellavattolo, che no era buono per no quaglio de cane, pocca poteva gridare la sfortunata e aprire la canna che lo mantrone non se moveva da cacare pe farele no mmarditto servizio».

Oltre a questo vengono anche forniti dei dettagli fisici che denotano la bruttezza di Peruonto. “Uerco marino” e “pede peluso” sono appellativi che gli vengono rivolti con lo scopo di schernirlo. Il suo aspetto ricorda quello delle numerose creature mostruose appartenenti al mondo del fantastico che si possono incontrare leggendo le altre fiabe del Cunto. In un certo senso viene creata una connessione tra la bruttezza fisica di Peruonto e la sua “bruttezza” d’ingegno. Nonostante le premesse negative, egli riesce a ottenere dei poteri magici, i quali gli vengono donati dai tre figli di una fata, come ricompensa per avergli costruito con delle foglie un piccolo riparo sotto al quale proteggersi dal sole cocente. Grazie al dono ricevuto, Peruonto è in grado di trasformare in realtà qualunque suo desiderio, anche il più assurdo, come quello di riuscire a far rimanere incinta la principessa Vastolla grazie alle sue sole parole. Attraverso varie peripezie, e grazie ai suoi poteri magici, il protagonista riuscirà infine a sposare la fanciulla. Nel finale del racconto viene perfino “corretta” l’ignoranza di Peruonto, ma in maniera del tutto diversa rispetto a quanto accaduto nella vicenda di Carluccio in Sapia. Il protagonista esprime semplicemente il desiderio di diventare “bello ed educato”, a significare come la sua stoltezza venga vista anche come segno di cattiva educazione. Questa richiesta, peraltro, non è nemmeno frutto della sua volontà, ma di quella di Vastolla, ormai obbligata dal corso degli eventi a sposare un brutto ignorante, per i quali difetti però è possibile porre un rapido rimedio. Del resto Peruonto, nel corso della fiaba, non è mai realmente consapevole di cosa stia succedendo intorno. A sua insaputa trasforma una fascina in cavallo, e sempre a sua insaputa lascia Vastolla incinta di due gemelli. Perfino nel momento di massima crisi, quando i due protagonisti insieme ai loro figli verranno rinchiusi in una botte e gettati in mare, a comprendere che sia necessario ricorrere alla magia non è Peruonto, ma Vastolla, che gli suggerisce di trasformare la botte in un bellissimo palazzo. L’aver acquisito straordinari poteri non rende lo sciocco protagonista automaticamente consapevole di essi, piuttosto, se possibile, ciò fa apparire ancor più stolto il suo personaggio. Il contrasto tra la sua ignoranza e i magici poteri da lui ottenuti è così netto da impedire che possano coesistere all’interno della stessa figura entrambe le caratteristiche, al punto che, al termine della fiaba, attraverso la seconda viene eliminata la prima.

Nel racconto intitolato L’ignorante (III. 8) il nome del protagonista dovrebbe già farci comprendere quali siano le caratterische che lo contraddistinguono. Moscione ha come padre un uomo benestante, il quale non riesce più a tollerare la stupidaggine e inettitudine del figlio.

«Era na vota no padre, ricco quanto a lo maro, ma, perché non se pò avere felicetate sana a lo munno, aveva no figlio cossì sciaurato e da poco che non sapeva canoscere le scioscelle da le cetrole».

Per questo motivo egli decide di allontanarlo da casa, chiedendogli di andare a commerciare in Oriente, allo scopo di svegliare in qualche modo il suo ingegno. Lungo il suo cammino Moscione incontrerà diversi personaggi in possesso di straordinarie abilità fisiche e dai poteri magici. Proprio grazie ai loro prodigiosi interventi il protagonista riuscirà a superare difficili sfide, al termine delle quali otterrà grandi ricchezze. Occorre considerare, tuttavia, che, nonostante il protagonista del racconto sia lo stolto Moscione, ogni azione di rilievo all’interno della vicenda viene compiuta dai suoi amici dalle doti ben più notevoli. A gareggiare nella corsa contro la figlia del re è Furgolo, campione di velocità, supportato prima e durante dall’aiuto di Orecchie-di-lepre, Cecadritto, Soffiarello e Forteschiena, dai quali nomi possiamo immaginarci quali siano le abilità da essi possedute. Lungo il suo peregrinare per il mondo, il protagonista pone la stessa domanda a tutte le persone incontrate, chiedendo loro quale arte conoscessero, quasi come se volesse cercare nell’altro doti e capacità che lui stesso non possiede. Nel finale il protagonista muta la propria condizione sociale senza aver compiuto alcuno sforzo e condividendo con i suoi amici le ricchezze ottenute. Sull’ignoranza del protagonista non vi è alcun tipo di riflessione e in tal senso, diversamente rispetto a quanto accade riguardo il suo status economico e sociale, non vi è alcun ribaltamento rispetto alla sua condizione mentale. Moscione resta tale di nome e di fatto. Il mutamento della sua situazione non dipende da alcun gesto di rilievo da egli compiuto o da una specifica qualità acquisita durante il suo percorso, ma è dovuto, come del resto in tanti altri casi, dal semplice incontro con personaggi fuori dall’ordinario. Questo espediente narrativo, che può apparire casuale, si mescola in realtà coerentemente all’interno di un sistema fiabesco di stampo barocco, in cui veniva accolto il senso della meraviglia, scaturito dal gusto per la rappresentazione di ciò che è distante dalla realtà, da dettagli e atteggiamenti burleschi, da continui mutamenti di scena. Questi aspetti vanno costantemente a scavalcare l’usuale andamento logico degli eventi che vengono narrati, andando a mostrare una ben evidente alterazione della catena fattuale, dove è assolutamente lecito che un ignorante come Moscione possa stravolgere il proprio status sociale da un momento all’altro, grazie all’intervento di forze magiche apparse improvvisamente.

È interessante notare che in due delle fiabe che hanno come protagonista il personaggio dello stolto non siano presenti elementi magici a muovere il corso della vicenda. In generale questi due racconti rientrano tra i soli cinque, sui cinquanta totali di tutto il Pentamerone, nei quali la narrazione non dipende da creature appartenenti al mondo del fantastico. Se Peruonto ha fatto affidamento ai poteri magici acquisiti, mentre Moscione ha potuto ricevere il supporto di personaggi dalle abilità fuori dall’ordinario, al contrario un personaggio come Carluccio ha avuto come unica soluzione il mezzo più comune possibile, ossia ricorrere al duro studio. Non vi sarebbe che altro rimedio anche per Vardiello (I 4), sebbene non vi sia in lui una valida motivazione, come per Carluccio, che lo spinga a concentrarsi sullo studio con lo scopo abbattere i confini della propria ignoranza. La madre prova a coinvolgerlo nelle attività utili al benessere della famiglia, ma in ogni circostanza Vardiello si rivela incapace di agire adeguatamente. Al termine del racconto il protagonista finirà rinchiuso all’interno di un manicomio, mentre la madre sembra quasi soddisfatta di essersi liberata di un figlio del genere. Tale risoluzione poteva ben soddisfare il desiderio di divertimento dei cortigiani napoletani, in quanto la figura del folle vestito con il solo camice bianco è stata perfino d’ispirazione per la realizzazione di diversi costumi carnevaleschi.

In un contesto in cui non avviene nessun evento fuori dall’usuale o in cui non entra in gioco nessun personaggio appartenente al mondo del magico e del fantastico, la figura dello stolto non può trovare alcuna possibilità di riscatto, se non nel modo visto in Sapia. Persino in un’opera come Lo cunto del li cunti, che ha come suo punto cardine lo stravolgimento del reale, c’è spazio per delle storie che possiamo ritenere, seppur con delle dovute cautele, un opaco riflesso della realtà e dei suoi canoni culturali e sociali del tempo. Uno sciocco, infatti, non può far altro che essere quasi sempre vittima della mondo circostante, come Vardiello, che subisce passivamente il corso eventi, a differenza di Carluccio e Peruonto, che ribaltano la propria condizione grazie ad eventi e personaggio fuori dell’ordinario.


BIBLIOGRAFIA

  • M. Rak, Nota bibliografica, in G.B. Basile, Lo cunto de li cunti. Con testo napoletano e traduzione a fronte, Garzanti, Milano, 2013.
  • M. Rak, Il racconto fiabesco, in G.B. Basile, Lo cunto de li cunti. Con testo napoletano e traduzione a fronte, Garzanti, Milano, 2013.
  • M. Rak, Da Cenerentola a Cappuccetto rosso. Breve storia illustrata della fiaba barocca, Milano, Bruno Mondadori, 2007.
  • G. Getto, Il Barocco letterario in Italia, Bruno Mondadori, Milano, 2000.
  • D. De Liso Deformità e monstra nel Cunto de li cunti di G.B. Basile in D. De Liso, V. Merola, F. Millefiorini, F. Pierangeli, Oltre il limite. Letteratura e disabilità, Paolo Loffredo Editore, Napoli, 2022.
  • G. Cocchiara, Il mondo alla rovescia, Torino, Universale scientifica Boringhieri, 1981.
  • G.B. Basile, Lo cunto de li cunti. Con testo napoletano e traduzione a fronte, Garzanti, Milano, 2013.

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3 thoughts on “Le spezie de li ‘gnorante a lo munno. Lo stolto nelle fiabe di Giovan Battista Basile

  1. Ben descritto e sviluppato il resoconto di quest’opera di questo genere letterario. Un plauso all’autore dell’articolo.

  2. Complimenti per questo splendido lavoro! Si è discusso di un capolavoro della nostra tradizione con passione, cura e grande sensibilità.

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