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E venga poi una fine calma di giornata

come arriva il perdono a un’ eresia –

prima di ridormire per il giorno dopo

lunghi discorsi sulla vita

e belle idee per gioco, abitudini care

che mantengono il mondo.

(Silvia Bre)

Non so se il componimento di Silvia Bre che ho scelto per iniziare a parlare della pittura di Antonella Castelli sia il più valido per un commento critico dell’opera dell’artista marchigiana. Di certo l’esperienza creativa di quest’ultima s’appressa al tono e al respiro dei versi. L’atmosfera dei suoi paesaggi, concepiti col travaglio paziente della pittura “en plein air”, del contatto diretto con la Natura, di un’ispirazione immediata protesa a cogliere le rifrazioni della luce e gli accostamenti tonali; tale atmosfera può essere percepita solo avvicinandosi alla sua arte in silenzio, quasi in punta di piedi. Si rischia, dinanzi ad un’arte così fermamente ancorata ai mezzi tradizionali (al pennello e alla tela, all’acquerello e al confronto col “vero”), di scadere in interpretazioni banali, quanto inutili. È indispensabile, cioè, arginare due equivoci ricorrenti: da una parte l’intellettualismo che imprigiona le figurazioni agli stereotipi della Storia dell’Arte (e penso ai lacci troppo stretti del “Paesaggio Classico”, dal Seicento, con Poussin e Van Ruysdael, passando per Corot e i romantici fino ad arrivare agli Impressionisti); dall’altra il bozzettismo, il realismo che non rende giustizia ad un’arte assai lontana dall’elemento vernacolare e caratteristico, dal quadro ridente da cartolina, buono per le innumerevoli, piccole esposizioni da sagra di provincia.

Ma non mi interessa dilungarmi in notazioni polemiche. Molto più affascinante è riflettere sulla meravigliosa reticenza dell’artista, poco incline a parlare d’arte, completamente dedita alle sue realizzazioni, rasserenata e acquietata in esse. Nessuna grande concettualizzazione, è nella Natura che l’artista cerca, senza curarsi d’altro e, soprattutto, come se le Neo-Avanguardie Contemporanee non l’avessero nemmeno sfiorata.

Come Corot, che orgogliosamente riportava sempre l’ora e il giorno d’esecuzione dei suoi quadri, la Castelli non nasconde che lo stesso ciclo delle stagioni e delle colture influisca sulla scelta dei colori e sulla luminosità delle sue composizioni, dove l’interesse per il paesaggio, anche solo come sfondo (“Autoritratto”) resta preponderante. Ecco perché le Nature Morte metafisiche o il “Vaso”, opere certamente più “pensate” in atelier, sebbene non trascurabili, vadano inserite in una fase più transitoria e di passaggio, poiché, lo ripeto, è nel rapporto con un paesaggio che è dato reale e sfondo dei ricordi e delle emozioni (anche paesaggio dell’infanzia) che l’artista trova la dimensione a lei più congeniale. Da rimarcare, comunque, la straordinaria resa plastica della luce nel “Vaso” sopracitato e la consistenza, lo spessore degli oggetti in “Composizione”, dove il volume è dato dal colore più che dalla linea.

Non sono certo aspetti estranei ai suoi paesaggi, i cui soggetti si ripetono quanto invece i motivi pittorici variano, dall’interesse esclusivo per il colore di “Potenza in Inverno”, al di là di ogni limitazione prospettica; al “Paesaggio” del 2003, dove l’ascendente di Corot e degli Impressionisti perviene ad esiti di rara indefinitezza esaltando le diverse tonalità dei verdi, le sfumature, i chiaroscuri nell’atmosfera caliginosa, nella foschia della vallata.

Analogo intenso lirismo, di sapore romantico e quasi leopardiano, l’artista di Fontenoce infonde alla sagoma del monte dell’ “Ascensione”, offuscata da nubi eteree e vaporose.

Una pittura “povera” di contenuti, dicevamo, quanto ricchissima di forme, sebbene l’artista non si compiaccia mai della propria abilità esecutiva, tesa a rendere il sentimento della natura. È come se l’artista si lasciasse sedurre dallo spazio circostante (soprattutto la vallata del Potenza, da una parte, e il paesaggio dalla parte opposta) proiettando su di esso emozioni e ricordi nelle corrispondenze profonde tra il “genus” marchigiano del suo tratto veloce, essenziale, semplice (di una semplicità che è “la cosa più difficile del mondo”, secondo il poeta Filippo Davoli) e un paesaggio sobrio, tendente al pittoresco più che al sublime, tanto lontano dalla terribilità di una natura incontrollata, quanto dal deturpamento eccessivo da parte dell’uomo. Allo stesso modo il rapporto della Castelli con la natura resta un rapporto di continuità, di perfetto equilibrio tra artificiale e naturale; la sua pittura non “violenta” mai la natura, non sovrappone mai ad essa elementi superflui, che tendono al languido, al barocco, all’ornato o al grazioso. La fedeltà alla propria terra la conduce alla codificazione di un paesaggio marchigiano per eccellenza non perché l’immaginazione dell’artista si leghi ad esso in senso meccanico o di pura mimesi, ma nel “traiter la nature” allo stesso modo. Le dolci armonie delle colline marchigiane, i loro toni sobri e i loro eleganti contorni si riconoscono in una pittura che, senza ricadere nel vieto naturalismo e nella verosimiglianza, rifugge da sperimentalismi e deformazioni esasperate. L’artista, e da ciò deriva la sincerità e autenticità della sua ricerca, non si pone mai problemi di tecnica in quanto tali: la fine maniera di trattare il colore, gli squisiti effetti luminosi, sono diretti esclusivamente all’impatto complessivo che il paesaggio offre allo spettatore.

Nella breve, ma intensa, chiacchierata con l’artista, la Castelli mi ricordava anche la sua attività di scenografa, considerata comunque secondaria rispetto a quella pittorica. Solo quest’ultima le permetteva di esplorare tutte le possibilità, le potenzialità dirompenti del colore e della luce, quando diffusa, quando più sporca; solo la pittura pura le consentiva profondità e qualità, essendo sempre subordinata, la scenografia, al contenuto, alla superficie, al contesto narrativo del teatro. Ad un’analisi attenta io credo tuttavia (e l’artista concorderebbe, a mio parere) che l’inquadramento del paesaggio, coi suoi impliciti allacci anche al “vedutismo” risenta della sua attività di scenografa che comunica, dunque, con la sua pittura. Così l’inquadratura e la specificità della pennellata, del tocco, quando deciso e disinibito, quando più delicato, vanno a collimare in un’unitaria corrispondenza d’insieme. Nulla nella visione dell’arte della Castelli è accessorio, decorativo. La visione dell’occhio, degli elementi della natura confluisce in quella del cuore, del sentimento; è come se fosse un’idea di paesaggio materiata di quegli elementi nel cortocircuito fecondo delle emozioni. In ciò consiste la sua grandezza, nel riuscire a cogliere l’essenza del reale e trasfigurarlo liricamente. Anche per la pittura della Castelli vale, insomma, la definizione di Kandinsky per i dipinti di Corot, degli “stati d’animo travestiti da forme naturali”.

Vaso, olio su truciolato

News Reporter
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