Come è stata tradita l’antimafia

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Sottovalutazioni, silenzi, diffidenza, settarismo, superbia, ambizione e tanto denaro pubblico 

di Paolo Miggiano

Milano – Palermo – Italia. Certi tradimenti, dal di fuori, non li vediamo. Non li vediamo durante le colorate manifestazioni in giro per l’Italia ed in certe giornate dedicate. Sono tradimenti che non possiamo vedere quando si mettono su di un palco o dietro ad una cattedra a parlare (il più delle volte a sproluquiare) ai ragazzi ignari di cosa ci sia dietro. Non li vediamo neanche quando certi personaggi, dai teleschermi delle televisioni, entrano nelle nostre case con roboanti ed abusati proclami sulla legalità. Se non siamo attenti osservatori, non li vediamo neanche quando si inaugurano certe attività in certi beni confiscati alle mafie.

No, certi tradimenti per percepirli, per capirli ed anche per analizzarli, li dovremmo guardare dal di dentro, perché le manifestazioni esteriori e di facciata non lasciano spazio al loro manifestarsi. Spesso sono artefici della parola e, se non siamo sufficientemente arguti e capaci di leggere tra le righe, a coglierne le sfumature, ce le fanno passare come le migliori, le più egregie cose.

Vi parlerò di tradimenti, ma non di quelli che si consumano a latitudini leggermente più a Nord di quelle messe a fuoco dall’autore, ma di quelli che ha visto e analizzato Franco La Torre e che ora ce ne parla attraverso le pagine del suo libro dal titolo “L’antimafia tradita”. Un tradimento reso ancora più esplicito dal sottotitolo “Riti e maschere di una rivoluzione mancata”. Un libro uscito nel mese di ottobre scorso, per la casa editrice Zolfo Editore. Duecentodue pagine fitte di notizie e di informazioni utili per chi l’antimafia la vuole percorre davvero, senza nascondersi dietro a delle maschere.

A parlare di maschere, di tradimenti dell’antimafia e di buoni che sembrano buoni, ma che in realtà buoni non sono affatto, ci aveva provato qualche tempo fa Luca Rastello con il suo romanzo “I buoni”, dove un certo don Silvano, prete onnipotente, predicando per strada e nei palazzi, vicino agli ultimi e ai politici, accanto alle rockstar e ai galeotti e al fianco dei diseredati e dei magistrati, ci conduceva nella salvezza del mondo con i suoi progetti ispirati al “dio legalità”. 

Ma se quello di Luca Rastello era solo un romanzo fantasioso, una storia forse inventata o probabilmente ispirata ad una qualche realtà da lui conosciuta, dal momento che egli stesso è stato uno che aveva guardato certi mondi dal di dentro, quella che Franco La Torre ci descrive è una realtà ben identificabile, ben precisa, con nomi e cognomi dei buoni e dei buoni che sembrano solo buoni. È la storia di un tempo lungo di impegno antimafia, vissuto in prima persona da suo padre Pio La Torre prima e dalla sua famiglia dopo. Una storia antimafia lunga più di mezzo secolo e che l’autore ha visto precipitare, naufragare, tradire.

Franco La Torre ripercorre le strade del movimento antimafia sin dal dopoguerra, a partire da quelle lotte contadine per la liberazione delle terre del Sud dalla borghesia latifondista e dai suoi gabellotti e campieri. Lotte che in Sicilia erano organizzate dal Partito Comunista, dal Partito Socialista e dalle Camere del Lavoro. Suo padre Pio, con sua madre, Giuseppina Zocco, militanti del Partito Comunista in Sicilia, ne furono tra i maggiori protagonisti di quelle lotte. Lotte andate oramai del tutto disperse e appannaggio di qualche storico interessato ai fatti di mafia.

Da Portella della Ginestra alla morte del bandito Salvatore Giuliano (ritenuto il responsabile di quel massacro), dal periodo di prigionia del padre nel 1949 alle lotte degli anni ’80 nel movimento pacifista contro l’installazione delle testate nucleari a Comiso, dalle lotte contro il sacco di Palermo all’assassinio del giudice Gaetano Costa, del giudice Cesare Terranova e del poliziotto di scorta Lenin Mancuso, dall’assassinio del prefetto Carlo Alberto Dalla Chiesa, di Emanuela Setticarraro e Domenico Russo alle strade insanguinate di Palermo. Un lungo elenco ben argomentato di tutti gli uomini e delle donne cadute sotto i colpi della mafia in Sicilia, l’ascesa e il declino del potere mafioso dei corleonesi di Totò Riina, le stragi del 1982 e l’evolversi del sistema politico-mafioso e le sue strategie, il nascere, come contrapposizione, dei primi movimenti antimafia al nord, fuori dalla Sicilia, di una presa di coscienza che il problema mafia, prima sottaciuto e negato, diventava un problema nazionale. E poi un puntuale cammino nel mondo associativo antimafia siciliano, dalla nascita di “Città per l’uomo” (il movimento di Padre Ennio Pintacuda e Bartolomeo Sorge che sostenne la nascita della Rete di Leoluca Orlando) alla costituzione dell’associazione “Donne siciliane per la lotta contro la mafia” (sorta su iniziativa della madre dello stesso autore e di Giovanna Giaconia, moglie del giudice Terranova), dalla creazione del Coordinamento antimafia di Palermo (dove si annoveravano nomi come Angela Lo Canto, di molti studenti, di vecchi militanti del PCI e di molti poliziotti come Carmine Mancuso; movimento al quale collaborai anche io, pubblicando alcuni miei interventi sulla relativa rivista) alla nascita, sviluppo e declino di “Libera. Nomi e numeri contro le mafie”, il più grande movimento punto di riferimento dell’antimafia sociale in Italia, voluto da don Luigi Ciotti. 

Quella che Franco La Torre descrive non è solo la narrazione di una storia familiare e personale, ma piuttosto la sintesi degli eventi più rilevanti che hanno attraversato e insanguinato la Sicilia e l’Italia intera, con l’intento di fornire un’analisi critica non solo degli stessi avvenimenti, ma soprattutto dell’evoluzione (ma sarebbe meglio dire della involuzione) della cosiddetta antimafia sociale. 

Suo padre, come è noto, membro del Comitato centrale e della Direzione Nazionale del Partito Comunista Italiano e stretto collaboratore di Enrico Berlinguer, fu – con il Democratico Cristiano – Virginio Rognoni – titolare della legge antimafia che il 13 settembre del 1982 introdusse il reato di associazione mafiosa, il sequestro e la confisca dei beni agli esponenti della criminalità organizzata. I mafiosi e Salvatore Riina in particolare non potevano tollerare. Così, il 30 di aprile 1982, prima ancora che le sue idee diventassero legge, lo uccisero, insieme a Rosario Di Salvo.

Franco La Torre, che di mestiere non ha fatto e non fa l’anti mafioso di professione (per sua fortuna è uno dei pochi in quel mondo che vive del suo lavoro e per questo libero di essere anche critico delle realtà associative che conosce e che ha frequentato come volontario) ci dice come ha raccolto il testimone dell’impegno civile e di testimonianza della madre, che all’indomani dell’assassinio del marito aveva intrapreso al fianco di altre vedove di mafia.

In questo saggio Franco La Torre si interroga, fornendo le necessarie risposte, sul perché oggi l’antimafia sia diventata uno stanco rito dove sempre le stesse persone ricordano i caduti di una terribile guerra. Un’antimafia che si autocelebra, delegata, nella migliore delle ipotesi, ad una avanguardia di pochi eletti sempre più settari, che da anni segue lo stesso stanco e sterile canovaccio del calendario degli omicidi delle vittime innocenti, meglio se eccellenti. Una lunga scia di morti innocenti di cui una certa antimafia sembra essersene indebitamente appropriata (con l’evidente, salvo rare eccezioni, accondiscendenza degli stessi familiari delle vittime) una liturgia che celebra il passato e che non guarda verso il futuro.

L’autore ci conduce anche lungo la direttrice del suo impegno nel movimento antimafia che lo porterà ad assumere incarichi di rilievo (sempre a titolo gratuito), a guardarlo dal di dentro, studiandolo, analizzandolo e, quando lo ha ritenuto necessario, anche criticandolo e prendendone le distanze quando ne ha avvertito il suo snaturarsi. 

Al di là del liturgico annuale appuntamento in cui si finisce per autocelebrarsi per un giorno, il gruppo dirigente di Libera ha finito per assecondare quelle differenze tra le vittime di serie “A” e quelle di serie “B”, tra le vittime eccellenti e quelle che io spesso ho definito “di contorno”. Due pesi e due misure nel fare memoria, dice Franco La Torre. Due pesi e due misure, ma io aggiungo tre pesi e tre misure, perché a marcare le differenze ci si mette anche lo Stato che per il riconoscimento degli indennizzi ai familiari delle vittime innocenti opera sostanziali differenze tra chi è colpito dal terrorismo da chi è stato colpito dalla mafia prima del gennaio del 1967 (un discrimine temporale che – tanto per fare un esempio – ha escluso dai benefici i familiari di Placido Rizzotto) da quelle cadute dopo questa data e le vittime della criminalità comune, il cui confine con quella organizzata è spesso labilissimo.

Franco la Torre ha una formazione progressista, la sua visione della vita e dello Stato, nonostante il grande dolore che la mafia gli ha inflitto, è una visione garantista e per questo si è trovato a dover discutere all’interno del movimento antimafia con chi – altrettanto legittimamente – la pensava in maniera differente dalla sua. Significativi sono i passaggi del libro in cui egli argomenta del dibattito che si sviluppò circa la concessione di alcuni benefici ad un mafioso in fin di vita. Davanti a chi riteneva che lo Stato dovesse esercitare la giustizia in maniera rigida e non concedere alcunché ai mafiosi detenuti, con il rischio di apparire vendicativo, egli non esitò ad esporsi rivendicando le sue posizioni che invece si collocavano in una visione di Stato che poteva mostrare di essere forte nel ribadire di essere giusto, riconoscendo che poteva consentire anche ai mafiosi non più autosufficienti e in fin di vita e, quindi incapaci di nuocere alla società, i benefici umani concessi agli altri detenuti e consentire, quindi, anche ad un mafioso, di terminare i suoi giorni fuori dal carcere. Erano discussioni che tra familiari delle vittime era legittimo fare, ma nel movimento antimafia, sempre più chiuso e reclinato su se stesso, qualcuno cominciava storcere il naso.

Illuminanti sono le pagine in cui l’autore affronta la questione della mafia che milita nelle file dell’antimafia, la mafia che si infiltra nell’antimafia, riferendosi con molta chiarezza a quell’enorme scandalo che coinvolse Antonello Montante, il vice presidente di Confindustria, che stava per essere nominato addirittura ministro, il quale, ispirato, sollecitato, camuffato, accompagnato, sostenuto, consigliato, accreditato, protetto, celato, schermato, usato (fino a che scoperto ed abbandonato), da più parti, aveva messo in piedi un sistema di potere antimafia che di legale non aveva proprio un bel niente. E per scoprire che Montante non fosse quello che veniva rappresentato sarebbe bastato farsi due semplici domande, quelle che si faceva Pio La Torre (che in realtà sono le domande che si facevano i nostri padri davanti ad uno sconosciuto): di chi è figlio, a chi appartiene? E la risposta sarebbe arrivata. Come penso sarebbe facile, in certe altre latitudini, incrociare certi cognomi, per capire come vanno questo genere di cose. 

Ma quello che Franco La Torre – e noi con lui – non si spiega sono i silenzi di certi personaggi di primo piano nella lotta sociale alla mafia:  Non ho capito don Luigi Ciotti, a indagini in corso, che motivo avesse a rinnovare «ad Antonello» tutta la sua fiducia». Ed ancora non si spiega come mai Tano Grasso e Antonio Ingroia – che pure hanno incontrato spesso Antonello Montante e come tanti non hanno riconosciuto chi si nascondesse dietro a quella maschera – una volta che la maschera era caduta, non abbiano speso la loro autorevolezza, conquistata sul campo della lotta alla mafia, per prendere le distanze e condannare. Ciò che non si comprende è, appunto, la loro scelta di non dire

Franco La Torre, riprendendo un articolo di Lidia Baratta comparso su “Linkiesta.it” nel 2016, argomenta su quella antimafia divenuta un business, dove accanto alle associazioni che l’antimafia la esercitano seriamente, si collocano gruppi di potere che si fanno la guerra a chi si accaparra maggiori finanziamenti pubblici per andare a parlare tra i banchi delle scuole e, con l’autrice dell’articolo, avverte: «Ai politici regionali, provinciali e comunali dico di non dare soldi alle associazioni antimafia […]. Non è etico, non è normale, non è giusto. In nome di gente che è morta, che è stata uccisa, non è giusto che si spendano 250 mila euro per una manifestazione antimafia». E a tal proposito, aggiungo io che non è giusto e neppure etico piegare le ragioni di certe strutture cosiddette antimafia, finanziate con soldi pubblici, a meri interessi personali o di cordata.

Ed è con profonda amarezza che Franco La Torre affronta la questione della sua espulsione da Libera. Franco La Torre, con una relazione durata dodici minuti all’assemblea nazionale di Libera di Assisi del 7 – 8 novembre 2015, era stato critico sulla gestione del movimento antimafia e siccome, in quella occasione,  tentò garbatamente di argomentare il suo dissenso da certe scelte, venne cacciato con un semplice SMS da don Luigi Ciotti: Per quanto riguarda il tuo ruolo nella segreteria nazionale è venuto meno il rapporto di fiducia e con l’ufficio di presidenza attivo. Abbiamo percorso un tratto di strada insieme. In buona sostanza, si trattò di una liquidazione, una anticipazione di quegli aberranti metodi di licenziamento dei lavoratori adottate da certe multinazionali dei giorni nostri.

Da quel momento in poi, a Franco La Torre, il figlio di Pio La Torre, quello che non cercava incarichi, che non aveva alcuna intenzione di fare carriera nell’antimafia, non gli fu più consentito di partecipare a nessuna delle iniziative di Libera e chi, trasgredendo all’ordine impartito dall’alto, lo aveva in qualche occasione incautamente invitato, fu adeguatamente redarguito. 

Scrive Franco La Torre: L’aspetto che mi ha colpito di più è stata l’adesione immediata a una sorta di damnatio memoriae nei miei confronti. Con un colpo si cancellava ogni traccia che mi riguardasse, come se non fossi mai esistito, come se ci si vergognasse di me. Il figlio di Pio era scomparso e, se proprio fosse necessario parlarne, si era trasformato nel signor La Torre. Quella della damnatio memorie è una condizione che conosco molto bene, una condizione che ho vissuto direttamente ad altre latitudini, pur non essendo – per fortuna – figlio di nessuno, ma con alle spalle un lungo percorso di impegno in questo mondo. 

Un settarismo e una autoreferenzialità insopportabili, che la gente non vede e ad essere ancora più miopi sono gli intellettuali (se così oggi si possono ancora definire), che chiusi nella loro torre d’avorio preferiscono farsi i fatti propri, i giornalisti che non vedono e non sentono, che non sono capaci di incrociare certi cognomi, che non sono capaci di mettere in relazione un’inaugurazione di un bene confiscato con l’inaugurazione nello stesso posto di un anno prima.

Un’antimafia tradita, dunque, è la narrazione di Franco La Torre. Un’antimafia tradita da molti, da noi stessi, che a volte non siamo stati all’altezza del compito, ma il tradimento maggiore è di quelli che non riescono a misurarsi con la realtà che non afferrano e diffidano di quelli che non la pensano come loro e restano soli con se stessi, esposti a superbia e ambizione.

A conclusione del suo atto d’accusa, della sua impietosa e puntuale analisi di un’antimafia che ha tradito, Franco La Torre lascia uno spiraglio, si affida ad una speranza, intravedendo una luce e un futuro per un’antimafia che non sia narrazione di singoli eroi ma parte della più generale battaglia per la difesa della democrazia in Italia.

News Reporter
Un uomo controcorrente, che crede nelle persone e nell'affermazione dei diritti di libertà. Dentro ad una divisa grigio verde i fumi dei lacrimogeni, gli spari, le botte - quelle prese e quelle date - la guerriglia nelle piazze di Milano, Genova, Torino, Roma, Reggio Calabria, Aspromonte, Palermo e le gambe che gli tremano ed il cuore che batte, forte. Rammenta i compagni feriti e quelli caduti e pensa che è fortunato che non sia toccato a lui. E poi apprende che un intellettuale, Pier Paolo Pasolini, aveva parlato di lui e di quelli come lui e aveva detto che, mentre a Valle Giulia (1968 e lui era ancora un bambino) altri giovani facevano a botte con quelli come lui, egli stava - “simpatizzava” - dalla sua parte, perché i poliziotti sono figli di poveri. E capisce che può farcela, che c’è, forse, una strada, per ottenere i diritti, che ancora non ha. Ed è su questi ideali, che Paolo Miggiano ha camminato.

1 thought on “Come è stata tradita l’antimafia

  1. Il coordinamento antimafia ha rappresentato un avamposto della società’ civile nella lotta contro il sistema di potere politico_economico_ mafioso. Una trincea avanzata a cui si deve buona parte del lavoro per fare conoscere , in tutto il Paese ed oltre, le reali dimensioni del fenomeno mafioso al fine di combatterlo. Un movimento della società’ civile organizzata, senza precedenti, contro tutte le mafie, che difficilmente si potrà’ ricostituire, se non altro , per il particolare momento storico ormai trascorso. I dirigenti del coordinamento (gente scomoda) invisi ai politici, non hanno mai consentito di anteporre le ragioni di partito a quelle rappresentate nello statuto e nell’atto costitutivo dell’associazione. Per questo motivo, il merito di un cosi grande impegno civile e morale, basato sul volontariato e sul l’autofinanziamento che ha sottratto praticamente tutto il tempo libero, stroncato carriere nei propri posti di lavoro, intaccato le proprie vite personali .

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